Migliaia di visitatori da decenni hanno percorso l’inferno di Auschwitz-Birkenau, poi un giorno siamo andati anche noi (mia moglie ed io) a rendere testimonianza di quello che Hannah Arendt ha chiamato “la banalità del male”. Siamo stati due giorni al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, ma il tempo non è stato sufficiente per riuscire a dare una dimensione razionale a quanto è accaduto qui.
Ci sono concetti apparentemente semplici che descrivono gli opposti come bianco-nero, buio-luce, est-ovest, yin-yang, amore-odio (anche se ho sempre pensato di anteporre all’amore l’indifferenza invece dell’odio), ecc, poi ci sono Bene e Male che, pur essendo anche loro opponibili, non sono simmetrici.
In altre parole, se cerco di descrivere in quanti modi il bene si può manifestare, il pensiero corre alla salute, all’amore, all’essere in pace con se stessi, alla libertà del corpo e della mente, a non aver problemi di freddo o di fame, ad avere disponibilità economica senza invidia per chi ha di più, ad avere una famiglia serena e vedere crescere i figli nel migliore dei modi godendo del nostro stesso bene, ad avere tempo libero e buoni libri da leggere, ad essere attenti verso il prossimo.
Però, dopo un po’ l’elencazione si esaurisce: il bene è bene e basta.
Ma se penso la stessa cosa analizzando il male, l’elenco diventa infinito, ci sono mille modi in cui si può manifestare: odio, cattiveria, perversione, brutalità, paura, fame, freddo, angoscia, dolore, ingiustizia, umiliazione; l’elenco pare non finire mai, eppure qui è accaduto qualcosa di peggio ancora che neppure il “Sommo Dante” avrebbe potuto immaginare per il suo Inferno.
Ci sono diversi libri scritti da storici e altri, scritti dai rari sopravvissuti, che raccontano il calvario del breve tempo che trascorreva tra l’arrivo al campo e il forno crematorio, perciò la nostra testimonianza non può aggiungere nulla a quanto già autorevolmente scritto, ma solo raccontare brevemente “quell’incontro”.
Il primo giorno lo dedichiamo al campo di Auschwitz, la parte più antica, con i fabbricati in muratura per le SS, le celle e i forni crematori per i deportati, lo scalo ferroviario dove terminavano i binari sui quali arrivavano i convogli dei deportati destinati “alla soluzione finale” e, già alla fine della giornata, pare di avere toccato il fondo del male.
Il giorno successivo ci rechiamo al campo di Birkenau, dove i pochi fabbricati in muratura non servivano per ospitare i deportati, ma tutto quello che accadeva al loro interno non era meno terrificante che nell’altro campo.
Nel campo, infinite file di baracche di legno, nate come stalle per i cavalli, sono state utilizzate per ospitare esseri umani, ammassati e accatastati fino all’inverosimile su improbabili letti a castello a tre piani, per nove o dodici persone in ogni letto.
Tocchiamo con mano quello che conoscevamo già per averlo letto, ma il contatto è peggio di ogni realtà immaginata.
Basta, adesso crediamo di aver visto tutto, di aver toccato il fondo, abbiamo bisogno di uscire dalle baracche e di andare all’aria aperta.
Noi, per fortuna, possiamo farlo e uscire da qui.
Finalmente fuori, superiamo le baracche e ci avviamo verso il fondo del campo, in una zona dove non arriva quasi mai nessun visitatore, forse perché è abbastanza distante dai vari blocchi e, infatti, adesso siamo rimasti soli.
Il posto non è certamente vicino, ci sono un bosco di betulle e un laghetto, sembra un’oasi di pace, così lontano dalla sofferenza e dalla gente che viene a visitare il campo di Birkenau.
Ci pare di esserci, alfine, lasciati alle spalle un po’ tutta quella sofferenza e, arrivati qua, sembra finalmente di trovare un momento di tregua dove riprendere fiato.
Vediamo un cartello esplicativo fissato a un palo accanto al laghetto, andiamo a leggere: “In questo lago venivano scaricati camion di cenere proveniente dai forni crematori, per disperderne le tracce”.
Ci allontaniamo, quasi a voler sfuggire a questa ennesima e incredibile crudeltà, e ci addentriamo nel bosco delle betulle. Il terreno è pianeggiante con alcuni avvallamenti o depressioni, dove non ci sono alberi e l’erba cresce rigogliosa.
Un altro cartello ci dice che neppure questo è stato un posto così sereno come ci appare ora. Qui uno degli ultimi “carichi” di ebrei provenienti dal Ghetto di Lodz … (non ricordo, dovrò verificare storicamente la nazionalità esatta) … non ha trovato posto nel campo perché già strapieno, allora li hanno fatti “campeggiare in questo boschetto”.
Ci sono foto che testimoniano come queste famiglie si siano organizzate sotto gli alberi cercando di trovare una sistemazione che, apparentemente, non sembrava così drammatica.
I forni crematori lavoravano giorno e notte ma non riuscivano a smaltire tutto “il lavoro” del campo, così fu trovata un’altra soluzione per questa gente.
Un giorno li hanno radunati, li hanno fatti spogliare, li hanno condotti sul bordo di avvallamenti fatti scavare da altri prigionieri ed hanno ucciso tutti a colpi di mitragliatrice, poi li hanno bruciati con i lanciafiamme.
Qualche tedesco ha voluto documentare questo scempio con foto dove si vedono uomini, donne, bambini di tutte le età, una comunità denudata che viene trucidata, poi il fuoco dei lanciafiamme.
Di loro sono rimasti solo i vestiti al bordo del boschetto; sono rimasti lì e, siccome nessuno li ha presi, se ne sono impossessati il tempo, la pioggia, il sole e poi la neve e, alla fine, la terra che pietosamente li ha inglobati.
Però, se qualcuno smuove la superficie, anche solo con la punta della scarpa, riaffiorano brandelli di tessuto non ancora consunto, piccoli oggetti e bottoni.
Noi lo abbiamo fatto e, appena grattato il terreno, abbiamo scoperto e raccolto un bottoncino che abbiamo portato a casa con noi.
È un bottoncino minuscolo, forse per la camicetta di una ragazzina o forse per il vestitino di un bambino, comunque, doveva appartenere a una persona molto giovane per la forma e la “gentilezza” che evoca nella sua pur semplice forma.
Adesso è riposto, a casa nostra, in un piccolo cofanetto, nella vetrinetta tra le cose importanti e più preziose.
All’inizio, quando siamo arrivati al campo di Auschwitz, abbiamo girato guardando con un certo “distacco” per la paura di essere troppo coinvolti e di non saper reggere al dolore e all’emozione di quanto stavamo vedendo poi, piano-piano, la razionalità ci ha consentito di “entrare” veramente in questo inferno ormai così, apparentemente, silenzioso ed innocuo.
Dopo un po’ ci sembrava di essere quasi più forti e di poter guardare ed analizzare in modo meno emotivo, quindi più storico, la testimonianza di questo orrore.
Ma non è così! Non si diventa più forti, più razionali, è solo una reazione momentanea di difesa.
In realtà, appena esci dal lager (e dura negli anni), quello che hai visto riemerge, diventa come quei bocconi cattivi che non riesci a digerire e, in ogni momento, ti ritorna in bocca il sapore del bolo malefico.
Così, dopo un po’, appena ti lasci andare un attimo, appena chiudi gli occhi, appena credi o ti sforzi di pensare ad altro, questo rigurgito “ti ritorna su” e le immagini di quanto hai visto riaffiorano alla mente in tutta la loro terribile crudezza, e continuano, e continuano, mentre mangi, mentre cammini, quando ti siedi e quando ti corichi.
Ma il “male” che qui abbiamo visto ha una dimensione così spropositatamente enorme che la mente fatica a concepirlo: è un unico groviglio da cui diventa impossibile districarsi e distinguere il tragico destino di un uomo da quello dell’altro.
Troppe sono le persone passate per questo tritacarne; i loro nomi e le loro foto (quando ci sono) si perdono in elenchi che coprono pareti intere confondendosi in un unico dolore.
Con il semplice gesto di raccogliere quel bottoncino ci è sembrato di poter separare una storia dalle altre storie.
Da questo immenso grumo di dolore che tutti accoglie, quel piccolo oggetto, raccolto con delicatezza, ci ha ricordato come esso sia il testimone di una storia "unica", di un singolo dolore rappresentativo di tutte le altre “invisibili” storie e dolori di quella moltitudine.
Adesso lo immagino sulla camicetta di una bambina: quante volte le sue manine lo avranno fatto passare per l’asola, lo immagino che la accompagna nel suo viaggio verso il boschetto delle betulle.
Il bottoncino c’è quando lei ha fame, quando ha paura, quando la madre la accarezza per farle coraggio e rassicurarla, quando dorme per l’ultima volta all’aperto nel freddo nel boschetto e quando la fanno spogliare vicino alla grande fossa.
Il bottoncino è rimasto lì a testimoniare i colpi di mitra e il fuoco che brucia il suo corpicino.
Erano tanti nel boschetto di betulle, tanti nella grande fossa a bruciare con il lanciafiamme e tanti finiti così tragicamente in mille modi ad Auschwitz, ma lei era unica.
Ecco, finalmente il dolore ha una dimensione precisa, che posso toccare.
Non è più quello immenso senza volto che tutto e tutti assimila, no! Adesso ha un volto, un corpo, una storia.
Un bottoncino che, come per “il Milite Ignoto”, per me è diventato il simbolo di tutte queste vite distrutte, ma non è “La Vittima Ignota” che rappresenta la sofferenza di tutti gli altri senza nome che qui sono dispersi, no, lui era sulla camicetta di una bambina indifesa e continua a ricordarci la sua storia.
Adesso tutte le foto che abbiamo visto non sono più solo immagini di un anonimo esercito di disperati, adesso sono persone vere come noi che, anche loro, avevano qualche bottoncino perso chissà dove.
Hanno cercato di cancellarle in mille modi, hanno distrutto i loro corpi e le loro storie ma, quando le hanno spogliate, non sono riusciti a distruggere e a disperdere anche tutti i bottoncini dei loro abiti; una buca ne ha restituito uno che è qui, a testimonianza e a ricordarcelo, ed è per questo che è così importante.