Rubiamo questo titolo del 2013 a Walter Siti, scrittore, critico letterario e saggista, per una riflessione utile a taluni spettacoli inseriti in festival, rassegne, vetrine di questo caldo autunno di danza 2019.
Il vortice dei festival autunnali è cominciato: quest’anno con un intreccio di spettacoli che si rincorrono uguali e identici in diverse città. Segno che coproduzioni e alleanze sono sempre più gradite e presumibilmente valutate con occhio benevolo anche in ambito ministeriale, là dove tutto dovrebbe o potrebbe cambiare in meglio, se solo in Italia cultura e spettacolo dal vivo cominciassero ad avere più peso. Questa riflessione, tuttavia, meriterebbe un capitolo a sé stante rispetto alla nostra gimkana festivaliera.
Chi abbia scorso anche solo di sfuggita i programmi dello storico “TorinoDanza 2019”, da due anni dolcemente sottotitolato da Anna Cremonini, la direttrice, Dance Me to the End of Love (11 settembre-26 ottobre), si sarà accorto che ha aperto i battenti con Sutra. Ebbene, la pluripremiata pièce, nata nel 2008 dalla collaborazione tra il coreografo Sidi Larbi Cherkaoui, lo scultore Antony Gormley e 19 monaci buddisti del Tempio Shaolin in Cina, è stato l’ultimo coup de théâtre del roveretano e trentino festival “Oriente Occidente” (24 agosto-8 settembre). Unica differenza: in Alto Adige non era contemplata, in scena, la presenza dello stesso coreografo. Invece, l’atteso assolo Xenos di Akram Khan, bengalese di origine, ma nato e residente a Londra con la sua compagnia, ha inaugurato il “REF-RomaEuropa Festival” (17 settembre-24 novembre), altra nobile vetrina, però multidisciplinare, da sempre presieduta da Monique Veaute e diretta da Fabrizio Grifasi. A pochi giorni dal debutto romano, Xenos è rimbalzato a “TorinoDanza”, assieme al successivo Inoah del brasiliano Bruno Beltrão con i suoi dieci danzatori immersi in un fervido, urbano e ibrido hip hop.
Nel più importante ed esteso festival della capitale giungeranno anche e ormai da tempi lontani, dal giugno dell’ultima “Biennale Danza” di Venezia, i due Leoni d’argento francesi Théo Mercier e Steven Michel con Affordable Solution for Better Living, più A Quiet Evening of Dance di William Forsythe, qui già recensiti. Invece, con il festival “Aperto” di Reggio Emilia (21 settembre-26 novembre), pure multimediale, “RomaEuropa” condivide quest’anno un omaggio a Merce Cunningham nel centenario della nascita e nel decennale dalla scomparsa, di lui pure qui abbiamo scritto. Sia in Emilia che nel Lazio, tuttavia, si tratterà di un ossequio “reloaded”: il Rambert Ballet offrirà, in novembre, e ad entrambi i festival, un cosiddetto Rambert Event, ovvero un pot-pourri di estratti dalle coreografie del grande Maestro americano, arrangiati e rimessi in scena dalla sua ex-danzatrice Jeannie Steele, con musiche create ed eseguite live da Philip Selway dei Radiohead (con cui Cunningham davvero lavorò per Split Sides del 2003) e scene e costumi ispirati a una serie di dipinti realizzati da Gerhard Richter, artista tedesco.
Gli scambi amicali non finiscono certo qui. Il gruppo belga Peeping Tom ha debuttato ad “Aperto”, festival diretto da Paolo Cantù, con Kind, terza parte di una trilogia dedicata alla famiglia, acquisita in toto da “TorinoDanza”, senza seguire l’ordine in cui è stata creata Kind (2019), - Moeder (2016) e Vader (2014) - ovvero Faher-Mother-Child. A Family Trilogy. Mentre il fiorentino “La democrazia del corpo” (26 settembre-30 dicembre), progettato da Virgilio Sieni, lascerà debuttare Keo di Elena Sgarbossa a “RomaEuropa” prima di accoglierla a Cango, ai Cantieri Goldonetta, la sua sede. Ma a settembre questa rassegna dal titolo ecumenico, ha già fatto debuttare alcuni giovani coreografi del progetto DNA appunti coreografici, di cui è sostenitrice con altri teatri, centri e rassegne, tra i quali rientra proprio il REF che farà sua questa serata a fine ottobre.
Abbandoniamo tanti fitti ma utili intrecci da capogiro e ripartiamo dall’inizio, con Sutra. Grande successo a “Oriente Occidente” duplicato nel vasto Teatro Regio dove “TorinoDanza 2019” ha dischiuso le sue proposte davvero sottobraccio a Leonard Cohen e al suo dolce e melanconico Dance Me to the End of Love. Qui lo Shaolin Kung Fu, la forma più famosa e spettacolare tra tutte le arti marziali, ancora oggi praticata nell’omonimo Tempio della regione cinese di Henan, perde a poco a poco il suo carattere battagliero, nato oltre 1500 anni orsono come tecnica di autodifesa contro le scorribande dei banditi, ma non l’originale esprit di preparazione del corpo alla meditazione buddista. Ne esce una pièce didattica, ma raffinata e pop - giunta dal 2008 ad oggi alla sua 250esima recita. Vi si costruiscono e demoliscono, con millimetrica esattezza e geometria, delle forme nello spazio grazie a ventuno casse in legno, alte e cave, mosse come fossero pezzi del Lego dai monaci stessi. In realtà, queste costruzioni sembrano essere pensate e predisposte al momento dallo stesso coreografo Sidi Larbi Cherkaoui, in abiti odierni e casual, e da un bimbetto in tuta Shaolin. Infatti, il silenzioso inizio della pièce vede entrambi concentrati e poggiati, come fossero a scuola, sopra un’unica asse, quasi stessero meditando quel che poi avverrà.
Dato che lo spettacolo si intitola Sutra, parola che in sanscrito significa “filo per infilare le perle”, laddove queste perle nello Zen rappresentano gli insegnamenti dei saggi maestri, possiamo subito immaginare un rapporto maieutico tra il coreografo e il bimbo. Ma di che tipo? Secondo il principio, di nuovo buddista-Zen, il maestro-coreografo insegnerà al suo giovanissimo adepto la trasformazione in noi e negli altri grazie alla meditazione, ma anche il mutare di una pratica marziale in qualcosa che somigli a una danza anche pacatamente occidentale. Una volta terminato il progetto di maestro e allievo, i monaci, nelle consuete tute grigie, simili a quelle dello Judo, calvi e carichi di un tempratissimo Qi (l’energia corporea) sposteranno di continuo le casse. Vi balzeranno sopra, a lato, sotto e vi si infileranno dentro, con il conforto di Szymon Brzóska, il compositore polacco che asseconda le loro urla e il fruscio delle loro armi. Con l’aprirsi a fiore delle casse, l’incolonnarsi delle stesse e la loro sovrapposizione, passa giusto il tempo del mutamento.
Abbandonate le tute Shaolin per più austeri abiti scuri occidentali, i monaci dimenticheranno la pratica marziale e degli acrobatici salti in volo come uccelli per immergersi in una corale danza di braccia e posture tranquille, senza più spade luccicanti - solo una parte e non tutta pericolosa delle diciotto armi della loro disciplina. Semmai si appoggeranno ad aste lunghe e decorative. L’unico elemento di disturbo - ma anche di comicità - è il bimbetto. Agile più di un gatto, e indisciplinato, il piccolo si mette a testa in giù entro le casse e pretende dai monaci e dal suo coreografo-maestro la stessa agilità. Lui, il bimbetto, impiegherà più tempo ad acquisire il ricercato aplomb Zen, ma ci riuscirà. Verso la fine della pièce comincerà a starsene in disparte, come la sua occidentale “guida spirituale”, e alla fine ben calmo e seduto, inizierà a progettare un suo labirintico gioco Lego-Zen.
Collochiamo tra Oriente e Occidente anche il viaggio iniziatico di Akram Khan nel rutilante e maestoso Xenos, un assolo con contorno di musicisti commissionato all’artista da un programma britannico sul centenario della Prima guerra mondiale. Khan ha voluto dedicare questo suo ultimo lavoro da solista (a 44 anni ha deciso di non creare più per sé ma solo per la sua compagnia) a un anonimo soldato indiano Sepoy (questo il termine utilizzato per designare qualsiasi milite dell’India arruolato nella British Indian Army) sacrificatosi come i suoi confratelli al colonizzatore, per avvalorare le sue vittorie. Perciò il suo assolo si intitola Xenos e significa straniero (in greco), ma è anche sinonimo di xenofobia: parola e concetto tornati prepotentemente d’attualità. Per una volta, tra l’altro, Khan si immedesima solo in parte in se stesso. Non è lui il soldato perdente e immolato alla causa del colonizzatore europeo sul magnifico pendio creato dalla scenografa Mirella Weingarten, assai valorizzato tra gli ori e i velluti del romano Teatro Argentina. È semmai la voce muta del suo bisnonno, davvero partecipe e per miracolo sopravvissuto alla più sanguinosa delle Guerre mondiali, dal quale Khan ha appreso con rabbia, riattivando una memoria a lui, e a noi, sconosciuta, di un conflitto passato alla storia senza traccia né riconoscenza nei confronti di un milione e mezzo di indiani Sepoy colonizzati, vinti e morti.
Solo all’inizio di una trasformazione molto evidente anche nei colori della scena e ritmico-musicali, Khan è se stesso. È un danzatore che asseconda, nel prologo, i due musicisti alle percussioni e al konnakol, una sorta di solfeggio cantato in sintonia coi tamburi. Quasi in proscenio, dando le spalle al pendio, tinto d’arancione e impreziosito da strisce argentee, da lumicini penzolanti dall’alto, simili in ogni balera campagnola, e da un grammofono d’altri tempi collocato quasi in graticcia, egli contribuisce a rendere serena l’atmosfera del consesso, nonostante certi rombi e boati che giungono da lontano, minacciosi e profetici. In seguito grosse funi si insinuano in proscenio; i musicisti del prologo se ne vanno, lasciando sedie e cuscini vuoti e un tavolino traballante. Da solo, in tunica bianca e campanelli alle caviglie, Kahn sfodera con eleganza il suo Kathak - una delle sei danze classiche indiane - appreso sin da piccolo a Londra, per volontà della madre bengalese, ma miscelato dal movimento di varie culture pop (Michael Jackson, ad esempio) e tecniche di danza contemporanea. Il corpo danzante di Ahram è ibrido, come asserisce lui stesso: vuole essere “un museo del presente”.
Alcuni stacchi musicali offrono la sola visione, lassù in alto, di altri cinque strumentisti impegnati nella restituzione della musica originale di Vincenzo Lamagna, danno tregua al danzatore. Anche perché nella seconda parte dell’assolo egli diviene una sorta di Prometeo, impegnato a stare in equilibrio sulla desertificazione del pendio ora bianco e grigio e come sporcato da molti dolorosi segni di lotta e fatica. Il mito greco, qui, non è quello di chi, a suo modo, ha creato l’umanità donandole il fuoco, bensì del Prometeo punito dagli dei: costretto da grandi funi, incatenato alla montagna-pendio, e sottoposto ad atroci sofferenze. Il grammofono in alto rivela la sua funzione: enumera i nomi più o meno comprensibili degli indiani Sepoy scomparsi; la musica da fluida e tonale diventa acre e dissonante. Una voce rincara e allarga la bestialità della violenza gratuita. Dice: “Questa non è una guerra. È la fine del mondo”. E mentre un getto di pigne sommerge il corpo ormai sopraffatto di Khan, un’altra voce, seguendo i testi di Jordan Tannahill, qua e là dispersi nella pièce, conclude lo storytelling di Akram Khan con una frase eloquente e politicamente decisiva: “Ho ucciso. Sono stato ucciso. Non è abbastanza?”
Rispetto al meraviglioso Desh, presentato nel 2012 sempre da “RomaEuropa Festival”, un assolo del tutto autobiografico, dedicato da Khan al proprio padre, e che gli valse un “Oliver Award”, questo Xenos può suscitare nello spettatore emozioni diverse e contrastanti. Adesione totale o una certa distanza, appunto emotiva, forse per il tratto un poco didascalico che si insinua nella pur preziosa e più che accurata messinscena. D’altra parte come in Sutra, pièce pilota e che comunque precede Xenos di dieci anni, l’accostamento tra Oriente e Occidente, nonché le trasformazioni repentine degli interpreti da uno stato all’altro, si sviluppano con una chiarezza molto amata, forse, dal grande pubblico, utile allo Zeitgeist odierno, ma dubitativa rispetto agli sviluppi della danza contemporanea. Non soffre certo di questo neo la Family Trilogy dei Peeping Tom, compagnia belga nata nel 2000 dal talento indiscusso e internazionalmente riconosciuto di Gabriela Carrizo e Franck Chartier. Gli elementi caratterizzanti di questo gruppo dai danzatori quasi sempre cangianti convergono verso un realismo folle, atemporale, onirico/ironico, in costante fuga da se stesso, un po’ come certo teatro del regista svizzero Christoph Marthaler.
I Peeping Tom superano i generi della scena, grazie alla disponibilità ad accogliere tutti i mezzi espressivi, anche come separazione degli elementi a difesa della loro autonomia. In questo senso ci permettiamo di segnalare per meglio penetrare nel loro lavoro, un puntuale testo di Walter Siti “Il realismo è l’impossibile” che, per quanto rivolto alla letteratura, calza a pennello anche all’arte scenica. Per Siti il realismo è "quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà". Come poetica “forma di innamoramento", il vero realismo cade sotto l'incantesimo di una scena, di un dettaglio, e da essi estrae un mondo intero: perché ama tali dettagli sottratti al flusso della consuetudine e gettati “a illuminare il mistero". Si invaghisce degli oggetti per ciò che sono, e il loro "effetto di reale" è tanto più inutile al preteso funzionamento di una storia tanto più è autentico. In una frase questo vero realismo: "secolarizza il mondo solo per re-incantarlo".
Nei Peeping Tom si parte infatti sempre dalla scena, da un contesto pieno di dettagli in cui agiscono i danzatori/performer. In Kind (Figlio) visto al Teatro Ariosto per il festival “Aperto” e poi come già sottolineato, passato a “TorinoDanza”, siamo in un suggestivo anfratto boschivo ma anche roccioso, delimitato da un alta e piatta parete bianca sempre in procinto di sgretolarsi, di precipitare come la grossa pietra che incombe dall’alto e che una serie di tecnici in tuta bianca, all’inizio della pièce, prova a ricollocare nel più elevato dei pertugi della parete stessa, comunque piena di cunicoli. Il paesaggio ha un sapore romantico; è notturno, propone una grossa luna, laggiù nel fondale, ma nulla è rassicurante. Anzi. In questo luogo detta legge un guardiacaccia dal fucile sempre pronto ad ammazzare innocui turisti, seguito da una moglie, o pseudo tale, ninfomane che lo costringe a una maratona di baci acrobatici di grande sensualità e fluidità danzante, soprattutto quando il violento custode della natura prova ad occuparsi della figlia ma solo per redarguirla e per metterle in mano un fucile con il quale imparare a sparare. Costei, la figlia, dalla silhouette maestosa scorrazza come una normale bambina su di una bicicletta che a stento contiene il suo corpo. Si addolcisce quando vede sbucare dalla foresta un cervo dalle gambe umane e in tacchi a spillo. Ma poi è pronta a imbracciare il fucile contro una famigliola di turisti in tenda nascosta nella foresta, già insediata dal guardiacaccia con l’uccisione della madre, poi ritornata in vita con un’altra magistrale danza acrobatica.
Il comportamento del padre influenza la figlia, e forse istiga in lei una sorta di gelosia, quando vede sbucare, nella tenda dei turisti, una bimbetta, accanto al padre, che mostra lo stesso disegno che lei pure aveva creato e cercato di mostrare ai suoi genitori, ma invano e con l’esito di pianti e strepiti. Il gran coup de théâtre in questo Kind, resta comunque l’aver assegnato il ruolo della corpulenta bambina felice e frustrata ad un mezzo-soprano (Eurudike De Beul) che di punto in bianco ci trasporta nella Morte di Isotta di Richard Wagner con voce sostenuta e limpida. Spiazzante dettaglio di un realismo poetico lanciato verso un altrove di amore e morte per lo meno inaspettato. D’altra parte, come annuncia ancora Siti: il cosmo sottoposto all'incantesimo della narrazione davvero realistica, è estremamente fragile, e non ha nulla a che vedere con il bisogno di verosimiglianza.
Così il padre-turista scampato a una morte di nuovo decisa dal fucile del guardiacaccia, forse non riuscirà a raggiungere i suoi cari mentre fuggono sopra la roccia, tra l’altro sotto lo sguardo immobile e indifferente di una coppia di turisti anziani che ben presto se ne andranno. Altri dettagli encomiabili, sono impossibili da dimenticare. Come la figura quasi preistorica di una madre che partorisce da un cespuglio un piccolo mostro-pupazzo reso orribile e contorto dai filamenti di una natura diventata inestricabile e ugualmente preistorica. Questa selvaggia, che ha un compagno simile a lei, vorrebbe disperatamente allattare la sua mostruosa creatura, ma riesce solo a cullarla. La bimba-soprano l’ha sbattuta sulla sua bicicletta con intenti omicidi. Indimenticabile pure il finale apocalittico, con pioggia di rocce e alberi, dal quale emergono figure quasi di gommapiuma con il volto all’incontrario. Stirpe del futuro? Altra domanda passibile di ogni interpretazione in questa pièce che suggerisce molte riflessioni sull’odierno rapporto tra genitori e figli, e in cui tutti i perfetti interpreti e collaboratori alle luci e al suono, andrebbero citati. Kind è spettacolo dai tempi perfetti: crudo, grottesco, lancinante e magnifico. Acting e danza vi rilucono in grande originalità.
P.S.: rimandiamo a una successiva riflessione le altre due parti della Trilogia dei Peeping Tom e il prosieguo degli intrecci nel vortice dei festival.