Violenza domestica e patriarcato, queste le problematiche familiari raccontate nel film C’è ancora domani diretto da Paola Cortellesi che ad oggi ha collezionato più di 30 milioni di incassi e oltre 27 mila spettatori. Un racconto ambientato nella Roma di un tempo, entrato ufficialmente nella top 5 dei film italiani con più incassi di sempre al cinema, piazzatosi anche davanti al famosissimo film di Benigni La vita è bella.

Un capolavoro volutamente narrato in bianco e nero, i colori che secondo la fotografia racconterebbero il vero, il dettaglio. Il colore del passato che allo stesso tempo riesce a raccontare la storia di sempre, quella della violenza tra le mura di casa, mura che sono conforto e rassicurazione per molti e che per altri invece sono rischio, paura, allerta e insicurezza.

Molti i temi trattati che hanno conquistato il cuore degli spettatori e della critica, ma in particolare il tema della violenza domestica e il modo in cui essa è raccontata merita un approfondimento mirato.

In questo articolo cercheremo di porre l’attenzione sulla modalità con cui la violenza viene raccontata, per capire quanto una scena interpretata in un film possa nascondere in sé diversi significati e rappresentare infinite interpretazioni e sottintendimenti celati nel tessuto sociale.

La trama

La storia di Delia è ambientata a Roma, nella seconda metà degli anni ’40. Lei è la madre di tre figli e la moglie di Ivano, un uomo molto scontroso e autoritario. Come la maggior parte delle donne del tempo Delia si occupa della casa e dei figli, inoltre durante la sua quotidianità si divide tra mille faccende lavorative che le permettono di contribuire all’economia familiare. Il fidanzamento di Marcella, prima figlia di Delia, interpretata da Romana Maggiora Vergano, innescherà diverse dinamiche che vedranno la protagonista destreggiarsi per permetterle un futuro più roseo e libero di quello che è spettato a lei.

Raccontare la violenza in modo alternativo

Al racconto della storia principale si alternano spesso fasi di silenzio dei personaggi, proprio da qui parte l’esecuzione di un vero e proprio copione fatto di sguardi e piccoli gesti messo in atto dai figli dei due coniugi, questi ultimi interpretati dalla stessa Paola Cortellesi e da Valerio Mastrandrea. Ognuno di loro attraverso lo sguardo sa che è il momento di andarsene, di lasciare la stanza perché qualcosa deve compiersi e deve prendere luogo, qualcosa a cui non si può assistere fisicamente ma il cui svolgimento si subisce attraverso le urla e il rumore delle percosse che percepiamo trapelare dai sottili muri di quell’umile casa al piano seminterrato. Rumori a cui la regista volutamente non dà voce ma mette in scena attraverso un leitmotiv Wagneriano che associa ad atti di violenza fisica domestica. I temi musicali contrapposti che prendono vita ad ogni episodio di aggressione, a volte accompagnata da gesti di danza che prendono il posto della colluttazione tra aguzzino e vittima.

Un disco che gira e che suona sempre la stessa musica, così viene rappresentata la violenza da Paola Cortellesi. Una traccia musicale che prende vita al primo schiaffo e ci mostra in maniera atipica come nascono e si evolvono le diatribe all’interno delle mura domestiche, che hanno sempre lo stesso epilogo.

Il ricorso alla violenza nella logica disfunzionale del marito, funge da risoluzione dei problemi. Uno sfogo privo di senso di colpa che porta secondo queste dinamiche familiari, al ripristinare l’equilibrio a cui segue sempre un nuovo giorno, un nuovo inizio che si spera sia diverso e che invece rimane sempre lo stesso, sempre violento.

Così come tutte le dinamiche familiari di cui si conosce l’inizio, lo svolgimento e la fine, anche la violenza domestica intesa come dinamica è perfettamente conosciuta dai componenti di ogni famiglia che l’ha sperimentata all’interno del proprio nucleo familiare.

Tutto nasce da un evento scatenante a cui segue una punizione su un capro espiatorio, in questo caso la madre. Nessuna scena di violenza viene mai trasmessa veramente nella sua crudele veridicità ma viene sublimata e rallentata, accompagnata da musiche e gestualità sceniche che contrariamente a quello che si possa pensare riesce ancora di più a colpire lo spettatore e a farlo entrare in una dimensione di immaginazione contemporanea alla scena che in maniera logica la nostra mente ci suggerisce. I nostri occhi vedono violenza e sentono la potenza delle percosse senza realmente sentirne l’intensità.

L’alleato della violenza nelle mura di casa: l’effetto testimone

Durante lo svolgimento del film, più volte vediamo dei personaggi essere spettatori silenti dello spettacolo della violenza. Spesso questo avviene in maniera esplicita, basti pensare alle comari che sedute nello spiazzale del quartiere assistono a qualsiasi malumore della famiglia, agli entra ed esci, alle buone notizie e anche e soprattutto alla violenza domestica che la protagonista subisce. Nel quartiere si sa che in quella casa, così come in tante altre, la violenza è all’ordine del giorno ma nessuno interviene mai a placare ciò che avviene sotto gli occhi di tutti. Le urla cominciano a pervadere casa, i figli vanno via, la finestra del seminterrato che dà sul piazzale si chiude davanti agli occhi delle comari sedute e inizia il solito spettacolo.

Inoltre, anche la figura del suocero che abita in casa con loro, Sor Ottorino, marca ancora una volta la normalità della violenza domestica di quel tempo, tramandando e elargendo al figlio consigli sulla gestione della moglie.

Nessuno si sente chiamato in causa ad intervenire. Questo fenomeno, che spesso alimenta l’omertà di fronte a realtà di violenza domestica non fa altro che legittimane ancora una volta ciò che accade come un naturale svolgimento degli eventi, questo esimersi viene definito dalla psicologia sociale come “Effetto testimone” definito dagli inglesi come Bystander Effect.

Questo fenomeno spiega come alcuni individui in presenza di altre persone non sentano la necessità di intervenire in casi di emergenza, non offrendo aiuto a chi in quel momento si trova in difficoltà. Maggiore è il numero di persone che potrebbero intervenire e minore è l’effettiva probabilità che qualcuno intervenga. Questo potrebbe essere derivato da numerosi motivi, tra questi troviamo fattori come l’ambiguità, la coesione sociale e la diffusione della responsabilità.

Famoso fu il caso dell’omicidio di Kitty Genovese avvenuto a New York nel distretto del Queens nel 1964, dove il mancato intervento da parte dei vicini, che in un secondo momento rivelarono di aver sentito diverse urla durante l’aggressione e di aver intuito cosa stava accadendo, permisero l’uccisione della giovane ragazza. Le indagini successive riscontrarono che nonostante diversi vicini avessero sentito urlare la vittima pochi di loro riconobbero in queste una vera richiesta di aiuto, non sentendosi chiamati in causa. Questo divenne il simbolo del fenomeno Effetto spettatore o anche noto come sindrome Genovese.

Anche nel film, nessuno sembra sentirsi chiamato a cessare la violenza, ma si preferisce assistere senza darle troppo peso, integrando così questo comportamento come una prassi del tempo dove la sottomissione della donna al marito era sintomo di autorità per l’uomo e le percosse fungevano da strumento per ripristinare l’ordine familiare e il comportamento ritenuto opportuno da parte della donna.