Michele il militante è salpato con l’incoraggiamento di Cesare Pavese che nel Mestiere di vivere (1952) scrisse: “Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva, e arriverò”. È salpato da Parigi, con la macchina fotografica, per giungere, o non giungere ancora, a una nuova idea di Italia, casa che ha lasciato tredici anni fa per la Francia.
Michele Gurrieri, direttore della fotografia, è nato a Firenze nel 1982 e vive a Parigi dal 2006. Quando c’entra la musica, il lavoro lo coinvolge di più: ha partecipato a un film documentario sulle tradizioni musicali rom del Kosovo, Kajda, e sta dirigendo The King, un documentario sulle bande di ottoni rom della Macedonia. Suona la tromba in una banda di strada parigina per difendere i diritti degli immigrati e del movimento per la casa. Una delle sue innumerevoli attività di pasionario contemporaneo.
Un giorno, quest’uomo di trentasette anni, non animato da particolari patriottismi, decide di andare a guardare il suo paese, a vedere che effetto gli fa e di ritrarlo in bianco e nero. Nel 2014 ha viaggiato al Sud e ha fatto alcune foto ai trulli, a Castel del Monte, poi ha aspettato il 2016 per cominciare davvero. All’inizio era un po’ frustrato, a disagio: “Con la superficialità di scattare foto in posti turistici, viaggiando così, per qualche giorno, senza uno scopo preciso. Ho capito che c’era la questione della lontananza, di questo fossato che si era aperto fra me e l’Italia: mi ero piuttosto disinteressato della situazione italiana, la mia conoscenza del territorio era limitata e, nel frattempo, è successo di tutto in famiglia. Insomma mi sono reso conto che la mia sull’Italia era una costruzione mentale, basata sul ricordo, sul sentimento, sul mio essere molto politicizzato. Sono quindi andato a verificare se esistesse veramente questa specie di costellazione affettiva, un po’ reale, un po’ immaginata”.
Punti di partenza?
I valori dell’antifascismo che per me sono molto importanti. Adesso si parla di neofascismo, aleggia in alcuni ambienti la nostalgia per il Ventennio, ma non è da oggi: i fascisti non sono mai andati via e l’ho sempre sentito forte. Nel paese c’è una dualità spiccata: ci sono gli italiani di un tipo e quelli di un altro e io sono contento di far parte di un tipo e non dell’altro. È una frattura che viene dall’immaturità, dal mito degli “italiani brava gente”. Non ci siamo guardati in faccia, come hanno fatto i tedeschi e i sudafricani.
Mai regolati i famosi conti con il passato?
Per me, no. No, fin dall’inizio. E avevo bisogno di osservare le posizioni neofasciste che sono lontanissime da me e mi fanno anche un po’ paura. Mi ha ispirato un libro tedesco del fotografo August Sander, pubblicato prima del Nazismo, che si chiama Gli uomini del Ventesimo secolo. Sander percorse tutta la Germania facendo ritratti dei lavoratori, cercando un po’ di raccontare la società intera.
Le ambizioni son qui, la realtà è da un’altra parte, ma in un angolino della mia testa c’era Sander mentre provavo a fare uno spaccato personale dell’Italia alle prese con lo sfasamento tra il paese conosciuto e quello immaginato. Lo sguardo è da una parte oggettivo e dall’altro soggettivo e quindi l’opera fotografica che ho intitolato Ogni mare ha un’altra riva (Clichy) è un’andata e un ritorno fra questi due poli.
Trovate più conferme o più sorprese?
Più sorprese, sorprese positive. Poche, piccole. C’è gente che lotta, che s’impegna. Si è parlato tanto di Riace, del sindaco Mimmo Lucano, avevo pensato di andarci, quando ancora non gli stavano facendo la guerra. Poi non l’ho fatto, ma ho scoperto altrove reti di persone che si battono e cercano alternative alla rassegnazione e al qualunquismo. Sono robe fragili, come Rimaflow, la fabbrica autogestita dagli ex operai, a Milano. Da quando li ho fotografati a oggi, sono stati processati, hanno dovuto chiudere, gli hanno bloccato i fondi. Se ne parla meno che di Riace perché è meno famosa. O anche le prostitute di Genova che si organizzano in un’associazione con don Gallo. Sono storie umane, belle, potenti. Mostrano che nel centro storico di una citta c’è ancora un’anima popolare fatta pure di prostituzione che non è necessariamente degrado, ma è la cultura storica di un porto.
Luoghi dove volevi andare e non sei andato?
Volevo andare in Calabria, a Rosarno, nella cooperativa SOS Rosarno in cui italiani e africani lavorano insieme nell’agricoltura e cercano di lottare contro ‘Ndrangheta e ingiustizia: hanno costituito un collegamento con altre realtà simili per la distribuzione dei prodotti. Volevo visitare alcune grosse fabbriche e non ci sono riuscito, mi sarebbe piaciuto andare di più al Sud e in seminario.
In seminario?
A confrontarmi con un mondo che per me è alieno. Io sono stato anticlericale, sono ateo, ma ho imparato ad avere rispetto per chi crede in Dio, ho molta stima per papa Francesco che su, certi temi, non su altri, si sta veramente esponendo. Per motivi di lavoro ho incontrato religiosi, soprattutto monaci, non preti, e sono rimasto impressionato dalla fede, da quel tipo di vita monastica, dalla solitudine, da questa illuminazione interna che per me non esiste: il confronto mi interessava molto. Anche frequentare un paio di amici cattolici praticanti con i quali avevo un dialogo, nonostante su certi argomenti non andavamo proprio d’accordo, mi ha fatto cambiare opinione.
In Francia che atmosfera si respira?
La mia risposta è parziale perché sono schierato parecchio a sinistra. Da quando c’è questo governo, che assomiglia un po’ al nostro liberista di qualche anno fa, lo stato sociale è stato abbattuto, tutte le barriere che c’erano prima della barbarie sono cadute e si sta facendo una battaglia per i ricchi contro i poveri. La vedo così, la vedo male, ma in Francia c’è una tradizione di lotta per mantenere certi diritti e certe conquiste che, storicamente, è più forte che in Italia.
Ci sarà una mostra di queste fotografie?
Mi piacerebbe. Però non è così facile… il costo delle stampe, dell’allestimento.
In Italia? In Francia? Itinerante?
Mi piacerebbe portarla nei luoghi che ho fotografato, penso sarebbe anche possibile. Onestamente, però, il primo posto sarebbe la Francia perché vivo lì.
Torneresti ad abitare in Italia?
In condizioni diverse forse sì, non a Firenze, non credo. Durante il viaggio ci pensavo, mi è venuta voglia. La Francia è vicina, ma diversa. Ci sono in Italia alcuni dati culturali forti a cui mi sento ancora vicino, però viverci, non lo so. A volte mi sento un po’… vigliacco è una parola eccessiva, però vedendo queste persone che in posti come il Sud si battono per la giustizia sociale, per il progresso, insomma forse è più coraggioso restare, cercare di agire qui. Anche se mi chiedo come fanno.
Hai appena detto: se tornassi in Italia non tornerei a Firenze.
Firenze, dove sono nato e cresciuto, dove c’è la mia famiglia, è una città bellissima però fin da ragazzo non ho mai avuto desiderio di restarci. Come mai? Non lo so. Sì, lo so. È una città chiusa su se stessa, nonostante arrivi gente da tutto il mondo, sempre. Conservatrice. Quindi ci torno con gioia perché è un posto favoloso ed è piacevole starci. Ma è una città con tante bolle. Per esempio, c’è Prato a poca distanza ed è un universo a parte, che non c’entra niente. Prato, con una comunità cinese enorme, con situazioni lavorative di sfruttamento gravissime, disastri antisindacali, venuti alla luce anche di recente. Invece vai in giro in bicicletta a Firenze ed è tutto pulito, stupendo.
Ci siamo dimenticati di suggerire a Michele Gurrieri di leggere il grande Stefano Sieni che, con la sua originale e approfondita ricerca d’archivio La sporca storia di Firenze, il fango che fa contraltare allo splendore lo ha esplorato centimetro per centimetro. Pur continuando a ritenere, s’intuisce, che la Cupola del Brunelleschi svetti senza rivali.