Nel mese di giugno di quest’anno l’attenzione dell’opinione pubblica italiana è stata rivolta verso il cosiddetto “scandalo romano”, vale a dire la diffusione degli atti dell’indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Perugia su un caso di corruzione che vedeva come indagato un magistrato, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, Luca Palamara, già presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e, successivamente, componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Al di là dell’esito che quel procedimento penale è destinato ad avere, suscitò scalpore l’evidenza di una fitta rete di relazioni che quel magistrato intratteneva con colleghi, esponenti del mondo imprenditoriale e politico, tutti concentrati a verificare la possibilità di influire sulle nomine che il CSM avrebbe dovuto compiere a breve dei titolari di alcuni importanti uffici giudiziari, e, segnatamente, le Procure della Repubblica di Roma, Torino, Perugia, Salerno e, a cascata, quelle degli uffici che sarebbero rimasti vacanti per effetto della eventuale nomina dei loro titolari ai nuovi incarichi dirigenziali. Interesse determinato non solo dalla ricorrente pratica spartitoria delle nomine più importanti (come i Procuratori della Repubblica) tra le correnti che compongono l’ANM, ma anche, e soprattutto (ed è questo l’aspetto più inquietante), dall’interesse diretto che alcuni dei partecipanti a quella rete avevano alla nomina di un determinato candidato, in relazione ai procedimenti pendenti a carico di alcuni di loro (tra i quali lo stesso Palamara), ritenuto evidentemente più disponibile di altri ad aggiustamenti processuali in loro favore. Lo scandalo romano ha comportato gravi conseguenze sul piano istituzionale, tanto da determinare prima l’autosospensione, poi le dimissioni di due componenti del CSM e del procuratore generale della Corte di Cassazione (evento mai avvenuto in precedenza) ed un progressivo allargamento dei soggetti implicati e delle questioni di cui Palamara e i suoi interlocutori si occupavano. Particolare scalpore hanno determinato, tra l’altro, le sollecitazioni rivolte al Procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo di rimuovere il sostituto della DNA Antonino Di Matteo da componente del gruppo stragi di quell’Ufficio.
Dalla lettura dei verbali delle intercettazioni colpisce non solo la volgarità e la spregiudicatezza del linguaggio, ma soprattutto la sensazione che si tratti di prassi largamente invalse in quel mondo, forse accentuate dalle contingenze del momento, ma comunque “normali”. I magistrati che hanno vissuto sopra la propria pelle queste esperienze, sanno bene di quali e quante ingiustizie hanno subito, di quanti posti erano letteralmente prenotati, perché “promessi” con largo anticipo a questo o a quello, di quali pressioni hanno subito per revocare domande già presentate per non disturbare il designato di turno, con la promessa che, in futuro, anche il rinunciante sarebbe stato accontentato… È altrettanto vero che queste prassi hanno subìto una accentuazione in conseguenza della riforma “epocale” del governo Renzi (legge 114/2014), che riduceva l’età pensionabile da 75 a 70 anni, con conseguente necessità per il CSM di procedere, in tempi assai brevi, alla nomina di varie centinaia di incarichi direttivi, per effetto dell’anticipato collocamento a riposo dei magistrati ultrasettantenni. Ulteriore conseguenza, la prassi delle nomine “a pacchetto”, cioè cumulative per blocchi di incarichi, o per ambiti territoriali, che consentivano una preliminare spartizione a tavolino delle nomine tra le varie correnti di appartenenza dei componenti dei CSM.
Il caso Palamara non poteva non provocare conseguenze politiche, che infatti seguirono immediate, come se dal mondo della politica non si aspettasse di meglio, per dare una risposta punitiva verso l’intero mondo giudiziario. Non fosse altro che per la presunzione che i suoi componenti nutrivano di essere la parte sana del paese in contrapposizione a quella decisamente malata del mondo politico, come tale obiettivo preferito delle loro incursioni investigative e mediatiche, per desiderio di protagonismo politico.
Una contrapposizione enfatizzata dai mezzi di informazione che, ad ogni indagine che avesse ad oggetto esponenti politici, locali e nazionali, parlano di “scontro” tra giudici e politica, di “processi ad orologeria”, di “toghe rosse” ed altre considerazioni del genere, divenute col tempo ripetitive quanto pretestuose, ma non per questo meno efficaci sul piano della comunicazione. A questo genere di polemica, si accompagna, l’annosa lamentela della lentezza dei processi, tanto quelli civili, quanto quelli penali, dovuti allo scarso impegno ed alla inefficienza dei magistrati, con conseguente necessità di radicali riforme del sistema. Per il settore penale, poi, si segnala il colpevole “lassismo” nel trattamento sanzionatorio, con scarcerazioni immediate, benefici penitenziari generalizzati, interpretazioni delle norme penali sempre favorevoli verso i criminali. Circa il rilievo di inefficienza studi comparati sui sistemi giudiziari europei hanno dimostrato che le sopravvenienze annuali dei processi civili e penali è il più alto d’Europa, e che il numero di sentenze emesse dai giudici italiani è anch’esso in testa alle classifiche. E si deve tenere conto che all’estero non esistono i maxiprocessi con centinaia di imputati e imputazioni e che le motivazioni sono scarne, mentre in Italia raggiungono anche migliaia di pagine.
Nell’articolo dal titolo La Giustizia ai tempi del populismo, si era già evidenziata l’insofferenza, tipica di tutte le “democrature” europee, verso una effettiva divisione dei poteri, e, di conseguenza, dell’autonomia e indipendenza della magistratura. Con il tempo, quell’intolleranza si è acuita e si è espressa in termini sempre più espliciti e spesso con toni di volgarità e violenza perfettamente in linea con la cultura politica di chi le ha espresse, in relazione alle vicende processuali che hanno riguardato il ministro dell’interno. Per darne un esempio basta citare le frasi pronunciate dal suddetto in data 14 febbraio 2016, per le quali è tuttora imputato del reato di vilipendio alla magistratura a proposito del processo aperto dalla Procura di Genova per le spese “pazze” dei politici (della Lega) in Liguria. “Qualcuno usa gli stronzi che male amministrano la giustizia; difenderò qualunque leghista indagato da quella schifezza che si chiama magistratura italiana che è un cancro da estirpare". Si prenda atto che per il segretario di un importante partito, oggi alla guida del paese, “la magistratura italiana è una schifezza e un cancro da estirpare”.
Da ultimo, sono divenuti frequenti gli attacchi ai magistrati che osano dare dei decreti di sicurezza 1 e 2, emessi di recente e sempre per inderogabili esigenze di necessità ed urgenza, una interpretazione diversa da quella che il suo autore si prefiggeva, con il seguito di insulti ed inviti ad entrare in politica e presentarsi alle prossime elezioni, con ciò ignorando quella divisione dei poteri cardine essenziale di ogni ordinamento democratico, non a caso già messa in discussione dalle autocrazie elettive di Polonia e Ungheria. Ad un ministro che pretende di ordinare arresti e condanne sarebbe opportuno ricordare che queste misure sono di esclusiva competenza della magistratura e che se ha proprio voglia di fare il magistrato avrebbe dovuto sostenere a suo tempo il concorso in magistratura e provare a vincerlo (peccato che non avesse neppure la laurea per parteciparvi…).
Dalla situazione di oggettiva debolezza del CSM e della magistratura tutta, è stata colta l’occasione per annunciare con fare intimidatorio una prossima riforma della giustizia, quasi per regolare i conti una volta per tutte, mentre il ministro guardasigilli, dal canto suo, ha già proposto alcuni progetti di riforma, dei quali daremo una rapida rassegna, con l’avvertenza che non si tratta ancora di veri e propri disegni di legge, approvati in Consiglio dei ministri.
A proposito del CSM si propone la riforma del sistema elettorale di nomina dei componenti togati (vale a dire i magistrati che compongono i due terzi del totale degli eletti), mediante la introduzione di un complicato sistema di selezione, all’interno del quale si introduce, dopo una prima fase che si potrebbe definire di elezioni primarie, una ulteriore selezione sulla base di sorteggio, seguita da eventuali e tuttora fumose procedure correttive. Un vero e proprio pasticcio, di difficile attuazione e sicuramente viziato di incostituzionalità, perché in palese contrasto con l’art. 104, quarto comma, della Costituzione, che prevede un unico sistema, quello elettorale.
Si propone ancora l’attribuzione al CSM il potere di emanare direttive agli uffici di procura circa le priorità nella trattazione delle indagini. La proposta è da un lato inutile, dall’altro incostituzionale. Inutile perché le priorità per la trattazione dei procedimenti da parte di organi requirenti e organi giudicanti è già stabilita (ma forse il ministro non è stato informato) dall’art. 132-bis delle disposizioni di attuazione, coordinamento e transitorie, del codice di procedura penale, che dispone quali siano, in ordine di importanza, i processi ai quali dare “priorità assoluta”, in primis quelli relativi a reati di particolare gravità ed allarme sociale. Incostituzionale perché il CSM non può emanare direttive che incidano sull’esercizio dell’azione penale e della giurisdizione, ma solo sugli aspetti organizzativi degli uffici, né può derogare alle leggi già vigenti sul medesimo argomento.
Punitiva, oltre misura, appare la proposta di sopprimere dall’ordinamento giudiziario le funzioni di procuratore aggiunto nelle procure e di presidente di sezione nei tribunali, incarichi definiti semidirettivi, che costituiscono la gran parte delle nomine di competenza del CSM. Una tale misura trasformerebbe le funzioni soppresse in quelle di mero coordinamento, la cui assegnazione sarebbe stabilita discrezionalmente dai dirigenti di procure e tribunali, con forte accentuazione del loro potere gerarchico. Ulteriore limite sarebbe costituito dalla circostanza che la selezione dovrebbe avvenire tra i soli magistrati già appartenenti a quegli uffici, senza possibilità di usufruire di apporti esterni di maggiore professionalità e competenza.
Infine, ma non meno inaccettabile, la proposta di ridurre drasticamente i tempi delle indagini preliminari (tre mesi per la maggior parte dei procedimenti, che diventano cinque o quindici per i reati più gravi), superati i quali scatterebbero a carico dei titolari delle indagini sanzioni disciplinari per “dolo o negligenza inescusabile” per non avere rispettato la nuova tempistica prevista. Inoltre, i pm che entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo per la richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio restano inerti, avranno l’obbligo di depositare gli atti di indagine compiuti. E chi non lo farà, sempre per dolo o negligenza inescusabile, compirà un illecito disciplinare. Il tutto nella imminenza del pensionamento a quota 100 di buona parte dei funzionari, segretari e assistenti giudiziari, già ridotti di numero per il blocco delle assunzioni da almeno dieci anni a questa parte. La formulazione della norma richiede, per ogni caso, di violazione dei termini, l’apertura di procedimento disciplinare, e solo in caso di accertamento di dolo o negligenza inescusabile, si potrà dare luogo alla sanzione disciplinare, ma nel frattempo il magistrato indagato sarà impegnato a difendersi, con ulteriore rischio di superamento dei limiti prescritti e con l’immaginabile moltiplicarsi dei procedimenti disciplinari.
Chi ha un minimo di esperienza giudiziaria sa bene che termini così brevi sono impossibili da rispettare se non per i processi relativi a materie bagatellari, mentre per quelli relativi a mafia, terrorismo, pedopornografia, traffico di sostanze stupefacenti, tratta di esseri umani, per non parlare di stragi e disastri colposi, le indagini possono richiedere tempi lunghi, sino a due anni. Ne risulta che, al fine di evitare il capestro delle sanzioni, molti magistrati preferiranno chiudere in fretta le indagini rinunciando ai necessari approfondimenti, con grave pregiudizio per l’acquisizione di un completo quadro probatorio (sia a carico che a favore degli indiziati) e della ricerca della verità.
Insomma, una brutta pagina per la giustizia e per la magistratura, che richiederebbe un progetto riformatore non collegato all’emotività o, peggio, a spirito di rivalsa, ma di respiro e di livello più elevato, accompagnato dalla previsione di un piano di risorse straordinarie, che mettano in condizione la giustizia di rendere un servizio efficiente, tempestivo, che assicuri il rispetto della legalità e della democrazia.
Dal canto suo, la Magistratura associata ed il CSM dovranno cambiare rotta, da subito, anticipando le misure sanzionatorie di cui si è detto. Quando, nei primi anni ’80, scoppiò lo scandalo di una dozzina di magistrati iscritti alla loggia P2, il CSM seppe dare una risposta tempestiva e rigorosa, espellendo dall’ordine giudiziario quei magistrati. Oggi deve dimostrare altrettanto fermezza e determinazione, senza esitazioni e riguardi, abbandonando per sempre le pratiche spartitorie e recuperando il criteri della meritocrazia quale unico parametro nelle nomine dei titolari di incarichi direttivi.