Micro e macro economia
Le scelte di uno o più soggetti riguardano la microeconomia e finiscono per comportare effetti anche sulla macroeconomia; invece, gli interessi – pur apparendo, anch’essi, all’origine, individuali e microeconomici - impattano sul sistema generale con modalità che vanno comprese attentamente e che possono risultare contradditorie e complesse.
Come si sa, il terreno dell’economia, a differenza di quanto accade in altre materie, si caratterizza per una sorta di schizofrenia tra la dimensione elementare (individuo, impresa, famiglia) e quella grande: ad esempio, ciò che chiamiamo “costo” nella microeconomia e nell’impresa va minimizzato; ma tale “costo” diviene valore o reddito nella macroeconomia e vuol essere massimizzato.
Questa contraddizione o schizofrenia è unica della materia economica perché non si riscontra nella chimica o nella fisica dove le relative “leggi”, se sono vere per le particelle elementari, si ritrovano anche nelle grandi aggregazioni.
Ciò vuol dire che, stanti le scelte dei consumatori (nei successivi paragrafi ne vedremo alcune) i loro effetti potranno comportare addirittura frustrazione e negazione degli interessi degli stessi consumatori in quanto padri di famiglia o produttori o semplici cittadini.
Siamo consumatori o produttori?
Fino agli anni ’60 del secolo scorso, il mercato era – si diceva – dei produttori: ciò voleva dire che l’economia era caratterizzata da una scarsità dell’offerta rispetto alla domanda, con le eccezioni che venivano chiamate crisi.
La crisi, infatti, consisteva in una carenza della domanda rispetto all’offerta. L’esempio classico fu, durante gli anni ’20 (sempre del secolo scorso) la situazione di continuo efficientamento produttivo accompagnato da una crescita dei redditi dei lavoratori – quindi dei consumi e della domanda - inferiore a quella dei profitti: si produceva di più e meglio, ma, quando i magazzini continuavano a riempirsi e non a svuotarsi, anche i profitti segnarono il passo e gli operatori di borsa cominciarono a vendere i titoli.
Cominciò così la più famosa delle crisi, quella del 1929, da cui non si riusciva a sottrarsi perché ci si attendeva – come per situazioni simili, ma di diversa portata – che la deflazione dei prezzi e dei salari, rivalorizzando le scorte monetarie, spingesse i possessori di queste ultime a ricominciare gli acquisti approfittando della situazione più vantaggiosa.
Ma ciò non accadeva e la crisi risultò più lunga del previsto e più grave: essa, infatti, si risolse grazie a due fondamentali cambiamenti di prospettiva: si capì che proprio i lavoratori – grazie allo sviluppo industriale – costituivano la parte più rilevante dei compratori di beni materiali di tipo standardizzato (e cominciavano ad accarezzare l’idea di divenire classe media); la spesa pubblica in disavanzo, i cosiddetti investimenti autonomi (perché, a differenza di quelli dei privati, slegati dalle prospettive di profitto), si rivelò l’altro canale – tertium non datur – per la ripresa.
Ne scaturì un sessantennio di capitalismo espansivo che andò dalle spese di preparazione alla Seconda Guerra Mondiale fino al G7 di Tokyo del 1979 (dove si completò la distruzione delle basi poste dagli accordi di Bretton Woods del 1943): le imprese aumentavano i loro profitti con strategie di massimizzazione delle vendite che comprendevano anche gli aumenti dei salari dei lavoratori, finalmente visti come compratori e consumatori.
Nella formula precedente, quindi, le imprese vedevano negli aumenti dei salari prospettive di vendita e di maggiori profitti.
Tale modello espansivo durò parecchio, ma ne fu decretata la fine per un tacito accordo tra chi lamentava di risultare estromesso dalle grandi decisioni di investimento in azienda e nella società (i cosiddetti proprietari/capitalisti) e chi ne aveva beneficiato fino a quel momento (le organizzazioni dei lavoratori e la stessa classe media): ciò fu sancito nel G7 di Tokyo del 1979 dove si decretò che ciascun Paese doveva arrangiare da solo l’equilibrio della propria bilancia dei pagamenti.
In precedenza, chi era debole, ovvero esportava poco e importava troppo veniva aiutato consentendogli di svalutare la propria moneta e con finanziamenti internazionali ad hoc; i Paesi forti (che esportavano di più di quanto importassero) soccorrevano gli altri rivalutando la propria moneta ovvero consentendo ai più deboli di recuperare in termini di miglioramento della loro bilancia commerciale.
Dopo il citato G7, dunque, l’unico modo che avevano i Paesi deboli per riequilibrare i loro disavanzi commerciali fu quello di importare capitali finanziari aumentando i loro tassi di interesse: ma così essi si indebolivano vieppiù e la solidarietà venne meno.
La solidarietà venne meno tra Paesi, pur appartenenti alla medesima alleanza internazionale (per intendersi, quella a guida USA), ma, a cascata, anche all’interno di essi: infatti, ciascun Paese, fermo restando il cambio valutario, dovette aumentare i tassi di interesse per compensare i disavanzi commerciali con l’importazione di capitali speculativi (se era debole) ma, tutti – anche quelli cosiddetti forti - furono costretti a optare per un contenimento dei salari.
Una competitività esasperata – che metteva in conflitto i lavoratori di un Paese con quelli degli altri – veniva considerata l’inevitabile riferimento di ogni strategia industriale.
Questo creò conflitto tra lavoratori e consumatori anche quando si trattava delle medesime persone.
Ma ciò che andremo a vedere nel paragrafo successivo, riguarda un aspetto ancora più grave.
Il caso degli alti tassi di interesse obbligazionari
Tutti gli anni ’80 furono caratterizzati da alti tassi interesse obbligazionari: non è questa la sede per approfondirne le cause – anche interne a ciascun Paese (in Italia fu il cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia del febbraio 1981) – qui basterà dire che i consumatori si trovarono davanti a qualcosa che parve una nuova e grande opportunità.
Sembrava, infatti, che i risparmiatori non propensi al rischio (la maggior parte), potessero trovare un’alternativa al mattone o al materasso.
Durante quel decennio, il tasso di interesse reale – vale a dire depurato dall’inflazione – si attestò attorno al 7% annuo; ma i nominali rasentarono il 20%.
Ciò voleva dire che un impiegato che avesse investito in sicurissime obbligazioni pubbliche poche decine di milioni di lire avrebbe, considerata la media delle retribuzioni del tempo, esattamente raddoppiato lo stipendio!
Furono momenti di euforia e, forse non a caso, in quel periodo, molte famiglie di operai ed impiegati si indebitarono per comperare una seconda casa.
Per la cronaca, i titoli di Stato italiani erano i più richiesti sui mercati internazionali dagli investitori istituzionali e dai fondi pensione (ad esempio, americani) che potevano prendere impegni con i loro sottoscrittori – i lavoratori stessi – in linea con quel 7% annuo in termini di rendimenti reali, cioè, come si è già detto, depurati dall’inflazione: ovviamente, il compratore straniero poteva lucrare ancora di più per la differenza tra il suo tasso di inflazione e il cambio della propria valuta – nell’esempio, il dollaro – con la lira.
Eppure quell’aumento dei tassi di interesse provocava anche ben altri effetti sull’economia reale: le imprese dovevano accorciare il loro orizzonte temporale e, quindi, ridurre le assunzioni; la metà dei profitti delle 100 più grandi aziende italiane era destinato agli acquisti sul mercato finanziario perché questi ultimi rendevano maggiormente degli investimenti produttivi.
Risultato: la disoccupazione giovanile (da 15 a 29 anni) crebbe, nel decennio, fino al 56% (record europeo) e si cominciarono a introdurre misure di flessibilizzazione all’entrata nel mondo della produzione, come furono i Contratti di Formazione e Lavoro o CFL. La metà di essi (due milioni) furono trasformati in contratti a tempo indeterminato con sostituzione di anziani che vennero prepensionati a spese della comunità e con danno della previdenza pubblica: di quella stessa somma pagata dalla comunità (circa 2.000 miliardi delle vecchie lire) si incrementarono i profitti delle imprese coinvolte nei fenomeni.
Le pagine dei quotidiani e delle riviste, tutti i talk show televisivi traboccavano della invettiva mainstream: gli anziani, andando prima in pensione, minavano le prospettive di futura previdenza per i giovani, era il cosiddetto conflitto intergenerazionale.
In realtà, le cose non stavano per niente così: il conflitto intergenerazionale si era determinato prima, quando i padri, assorbendo l’offerta di obbligazioni pubbliche ad elevato tasso di rendimento, determinavano – attraverso le decisioni strategiche delle industrie – la crescita della disoccupazione giovanile.
Così, il buon padre di famiglia risultava titolare di due redditi (il suo stipendio e la rendita finanziaria) e il figlio…zero.
A lungo andare, tale scelta dei consumatori ebbe effetto sulla natalità, l’autonomia e la cultura dei giovani.
I padri che – negli anni ’60 e ’70 – tra un proclama rivoluzionario e l’altro avevano scelto di divenire classe media, mandare i figli oltre la scuola dell’obbligo, aderire al consumismo corrente, optarono – nei successivi anni ’80 – per una prospettiva di disoccupazione e bassi salari dei loro ragazzi.
Ma c’era di peggio: quanto si è sostenuto in precedenza, ha riguardato solo quegli anziani o, se si vuole, padri che, mantenendo il posto di lavoro, avevano anche potuto continuare a sfruttare la situazione finanziaria.
Un’elevata percentuale di occupati perdeva il posto e, se non raggiungeva la pensione, anche il reddito da lavoro (o si doveva accontentare della cassa integrazione) e doveva rinunciare – in parte o in toto - alla rendita finanziaria.
Chi manteneva il posto non solo condannava il proprio figlio alla disoccupazione (per via dei cambiamenti strategici legati alla situazione finanziaria), ma doveva godere della condanna del compagno di lavoro licenziato o cassintegrato: si cominciò, così, a parlare di cannibalismo tra operai che prendeva il posto della coscienza di classe, della consapevolezza democratica e di altre diavolerie marxiste.
Infine, la scriteriata scelta delle autorità (Tesoro e Banca d’Italia) di far crescere – col famigerato divorzio – i tassi di interesse, grazie al completo affidamento ai mercati finanziari (ovvero le grandi banche autorizzate all’acquisto dei titoli alle condizioni che esse stesse decidevano), portò all’esplosione del debito pubblico: esso era inferiore al 60% del PIL prima dell’81, raddoppierà nel corso del decennio, superando ampiamente il PIL stesso.
Investitori istituzionali, pensioni, disoccupazione
Durante gli anni ’80, gli investitori istituzionali, fondi pensione e fondi di investimento, presero il posto delle classiche famiglie capitalistiche (pur con l’eccezione delle maggiori): le organizzazioni dei lavoratori – sia politiche, sia sindacali, sia associative – salutarono l’evento con favore, non capendo ancora gran che di quanto stava per accadere.
Infatti, gli investitori istituzionali che stavano prendendo impegni importanti con i loro sottoscrittori – gli stessi lavoratori o consumatori – sembravano garantire vantaggi, nella prospettiva della remunerazione del capitale (alias risparmio): peccato che, come abbiamo visto, il costo di tale vantaggio era che i perdenti (chi perdeva il lavoro) pagavano con le loro vite le conseguenze degli alti tassi di interesse e l’aumento dei profitti corrispondente alla diminuzione del lavoro vivo per unità di prodotto.
In realtà, si era passati dal conflitto di classe, che determinava il livello dei profitti in base a quello dei salari, al conflitto interno alla classe lavoratrice tra chi restava occupato e chi usciva dalla produzione in nome del supremo principio della competitività internazionale.
Ma il modello degli anni ’80 si rivelò ben presto insostenibile e, così, dopo la crisi del settembre 1992, si ritornò ai bassi tassi di interesse obbligazionario: ciò diede impulso alle borse e, quindi, si rifluì sul classico, classicissimo, capitalismo finanziario (crollato nel 1929 e sostituito da quello espansivo dopo il grande dibattito degli anni successivi).
Gli investitori istituzionali smisero di comperare obbligazioni, perché quelle emesse dopo il 1992 portavano rendimenti molto più bassi di quel 7%, sulla base del quale ci si era impegnati a soddisfare i creditori alias risparmiatori, alias lavoratori, alias consumatori.
Ma, questo è il punto, investitori istituzionali e fondi pensione erano talmente grandi da non acquistare azioni di minoranza delle imprese quotate in borsa, ma maggioranze e golden share (pacchetti di controllo).
Nei comparti nuovi e innovativi – che vedremo nel prossimo paragrafo – ciò non creava grandi problemi perché l’investimento cresceva di pari passo ai profitti, alla domanda di lavoro, alle vendite.
Ma nei comparti maturi e tradizionali come si faceva a garantirsi quel fatidico 7% all’anno? In un modo molto semplice: riducendo salari, occupazione e investimenti di più di quanto non accadesse alla produzione.
Non piccolo dettaglio: i comparti nuovi e innovativi rappresentavano una minoranza, significativa, sì, da ogni punto di vista, ma comunque tendente al ridimensionamento man mano che le loro produzioni maturavano e le tecnologie di processo marciavano più velocemente di quelle di prodotto.
Nella maggior parte dell’economia – anche di quella quotata in borsa – quindi, bisognava licenziare, ridurre i salari sostituendo i lavoratori più esperti, chiudere i laboratori e i centri di ricerca e sviluppo.
Negli anni ’90, dunque, il profitto veniva definito all’inizio del ciclo produttivo, non doveva scendere sotto il 7% annuo (costasse quel che costava); nel vecchio capitalismo familiare, invece, il profitto si determinava alla fine del ciclo del prodotto e, dopo pagati tutti i costi e le tasse, magari scompariva.
In altri termini, il rischio che weberianamente caratterizzava l’impresa cadeva sull’imprenditore; nel capitalismo non weberiano degli anni ’90 del secolo scorso, invece, il rischio veniva, tutto, scaricato sulla società e sullo Stato che, in un modo o nell’altro si dovevano far carico della disoccupazione, dell’inoccupazione (intere generazioni che arrivavano tardi o mai al lavoro), dell’insufficienza dei redditi a raggiungere un livello di vita dignitoso.
Ecco come gli investitori istituzionali hanno migliorato la vita di milioni, centinaia di milioni, di lavoratori e hanno fatto la differenza con le precedenti abominevoli famiglie di capitalisti patriarcali e paternalistici.
L’e-commerce ieri, oggi e domani
Così si sono sviluppate intere generazioni di lavoratori sottopagati e di consumatori che, alla ricerca di un qualche risparmio si sono sempre più affidati alle grandi catene di supermercati, vendite scontate di prodotti elettronici, piattaforme per l’acquisto di libri, cibo, indumenti. Consumatori che, da una parte hanno dovuto scegliere di ridurre la qualità dei loro acquisti per difendere almeno la quantità di beni acquisibili; dall’altra hanno condannato sé stessi e i piccoli negozi di quartiere che fungevano anche da presidio socio-culturale in quartieri sempre più condannati all’anonimato e alla decadenza.
L’evoluzione dell’e-commerce dagli anni ’90 ad oggi – peraltro accelerata dalle circostanze dell’emergenza pandemica – ha portato, nella maggior parte dei casi, a peggiorare nettamente le condizioni di vita dei consumatori stessi che hanno scelto la via di difendere la quantità: a scapito della salute fisica (il cibo spazzatura) e di quella mentale per l’alienazione e l’isolamento di intere generazioni di ragazzi (ma anche di adulti) dediti alla vita virtuale, con abbandono di quella sociale.
Così, le malattie più importanti delle nostre società, quelle cosiddette degenerative (cancro, diabete, obesità, sistema cardiovascolare, apparato digerente e renale), sono risultate oggetto di attenzione delle case farmaceutiche che si sono basate su cure non finalizzate alla guarigione dei pazienti, ma al mantenimento di essi in condizioni di malattia cronicizzata.
Gli psicofarmaci dilagano perché i rapporti umani costituiscono una eccezione nell’ambito dei comportamenti sempre più dissociati degli individui.
Lo Stato e la sanità pubblica non si sono mai posto il problema della salute dei cittadini che sarebbe la via maestra anche del risparmio delle risorse da destinare alle cure: alimentazione sana, attività fisica, potenziamento del sistema immunitario, sviluppo delle attività di socializzazione e di benessere.
C’è una via di uscita?
Verso nuove razze di consumatori
Mentre la grande maggioranza dei consumatori, delle piattaforme commerciali, delle attività dello Stato sembra ormai irreversibilmente prigioniera di un’evoluzione segnata dal peggioramento delle condizioni e degli stili di vita, sta emergendo una minoranza, sempre più significativa di produttori e di consumatori che vogliono abbinare il recupero delle tradizioni agricole, manifatturiere ed artigianali, l’utilizzazione sensata delle tecnologie disponibili, ragionevole ricerca di benessere, fitness e realizzazione del bene comune.
È in questa ottica che molte persone si stanno sganciando dal sistema o tentano di farlo o cominciano a pensarci.
Sarà così possibile la riunificazione del campo, ovvero il contrasto al dualismo contradditorio tra consumo e produzione: allo scopo di fornire soluzioni socialmente necessarie e capaci di spingere la consapevolezza del consumatore stesso non tanto verso la quantità e il prezzo, quanto verso la qualità ed il rispetto del costo che, poi, è il contributo di ciascuno al processo produttivo.
Una tale evoluzione sarebbe diversa rispetto alle attuali derive sulla cui condanna molti concordano, ma pochi si attivano per offrire comportamenti coerenti: obiettivi (ad esempio, di benessere) e strumenti per conseguirli non devono più evidenziare una contraddizione che è il prezzo pagato dai deboli in cambio di un’indifferenza oltraggiosa della dignità e del valore dell’essere umano in quanto tale.
Il futuro è già cominciato e implica un percorso che sarà già premio in sé, prima ancora del pieno raggiungimento di risultati utili che la parte più consapevole dei consumatori/produttori si augura.
Non si tratterà tanto di costruire ecovillaggi – capaci solo di raccogliere, in moderne “riserve indiane”, sparute minoranze in cerca di affermazioni ideologiche – ma, al contrario, vere e proprie realtà capaci di affermare il primato dell’essere umano (anche consumatore e produttore) sulla tecnologia: non la negazione di quest’ultima, ma un suo corretto e sapiente uso.
Non la tecnologia che domina l’uomo – esclusivamente consumatore e, magari, in conflitto con il sé stesso produttore – ma nemmeno il mero ritorno a stili di vita superati dalla Storia; e che la maggior parte della popolazione non vuole più.
Si tratterebbe di un ambito abbastanza largo (tra la dominazione tecnologica e la sua negazione tout court) e percorribile da quell’umanità che, sviluppata una crescente consapevolezza, si organizzi per contrastare la prospettiva catastrofica di un mondo a-politico, a-sociale, a-democratico.
Tale deriva è legata alla insostenibilità dell’economia del debito senza attrezzare alternative praticabili. L’economia del debito è stata padrona incontrastata del mondo cosiddetto civilizzato per millenni; e oggi è incapace a garantire margini sufficienti a tutti i percettori di risorse scaturenti dalla produzione: banche e finanziatori, rendite immobiliari, lavoratori, lo Stato con le sue tassi, i percettori di profitti.
Nella gran parte dell’economia – soprattutto quella immateriale e dei servizi di cura delle persone, dell’ambiente, del patrimonio esistente – almeno due o tre delle categorie prima elencate non possono venir soddisfatte: è sempre più difficile mantenere in equilibrio i conti dello Stato se l’unica fonte finanziaria di quest’ultimo sono i debiti e le tasse, senza – cioè – ricorrere anche, soprattutto o esclusivamente alla emissione di moneta non a debito (garantita unicamente dalle capacità produttive stimolate attraverso la sua immissione); è sempre più difficile mantenere in equilibrio i conti delle famiglie se i redditi da lavoro risultano sistematicamente inferiori al costo della vita (che aumenta in continuazione).
Conseguentemente i proprietari degli immobili vedono una compressione delle loro rendite a fronte di un continuo aumento dei loro esborsi per tasse e manutenzioni; cresce il novero delle imprese che fallisce o che, comunque, non realizza più un profitto sufficiente a giustificare l’impegno nella produzione reale di beni e servizi.
D’altra parte, nell’alternativa tra Stato e imprese, il parto delle imprese sociali ha consentito di ovviare alle carenze del primo, ma senza soddisfare adeguatamente la domanda degli utenti; probabilmente occorrerà ripensare tutta l’impalcatura del cosiddetto sociale che dovrà veder ridisegnato sia il ruolo difficilmente sostituibile dello Stato nelle strategie più complesse, sia quello fortemente necessario dell’imprenditorialità.
L’insieme delle considerazioni in precedenza tratteggiate, sia quelle catastrofiche dal punto di vista umano e sociale, sia quelle alternative di una rivisitazione non contradditoria degli interessi congiunti di produttori e consumatori sintetizza il quadro delle prospettive che abbiamo davanti.
Su un solo punto, infatti, sembra regnare l’accordo di tutti (o quasi): siamo alla viglia o, addirittura, dentro, a una fase di grande cambiamento che tutti e ognuno si giocheranno, si stanno già giocando; e, come al solito, saranno il cuore e l’intelligenza a vincere.
Chi più ce n’ha, più ce ne metta…