Nella Legge, un breve scritto della Collezione Ippocratica presumibilmente non anteriore al 350 a.C., l'autore assimila l'apprendimento dell'arte medica all'osservazione di quel che si vede accadere nel caso “delle cose che crescono nella terra”. La nostra “natura” è come il terreno, le “dottrine dei maestri” sono come i semi, l'apprendere fin da piccoli è come seminare nella terra arata a tempo opportuno. Il luogo nel quale avviene l'apprendimento è come l'alimento che dall'aria circostante sopravviene alle cose che crescono; la laboriosità è come la lavorazione della terra, è il tempo, infine, che “rafforza” tutto questo, fino a completa maturazione.
L'intento principale sembra quello di sottolineare che la formazione del medico è un processo a lungo termine che richiede tempo e fatica, ma anche metodo. Ciò che occorre, se si vuole acquisire “l’intelligenza della medicina in maniera sicura”, è in primo luogo il possesso di una “natura” che non faccia opposizione, ma si indirizzi all'ottimo; una natura avversa, infatti, rende vana ogni cosa, mentre in una natura favorevole l'insegnamento dell'arte attecchisce. Quest'ultimo risultato però non si consegue se non procedendo “con intelligenza” a partire da quando si è piccoli e in un luogo adatto all'apprendimento, applicandosi con laboriosità allo studio per lungo tempo, “in modo che l'apprendimento, diventato natura, rechi frutti belli e abbondanti”.
Il parallelo con la crescita coltivata delle piante sottolinea l'equipollenza tra medicina e coltivazione in quanto saperi tecnici: come la medicina, la coltivazione è una tecnica che, applicando nel lavoro determinate procedure quali la scelta del terreno, la semina o l'aratura, può ottenere risultati conseguenti, come la produzione di frutti. Il parallelo serve, inoltre, a mostrare che i risultati non vengono se non al compiersi dell'intero processo, quindi a tempo debito e che i buoni risultati, proprio come una fruttificazione splendida e abbondante, conseguono a prezzo di un duro lavoro e rispettando tutte le procedure, ma anche se, parallelamente all'applicazione corretta del metodo, si realizzano alcune condizioni indipendenti.
Gli autori ippocratici, infatti, guardano alle piante da molte angolature. La loro crescita con l'aiuto della tecnica della coltivazione è assunta a modello analogico del processo di apprendimento della medicina, il cui insegnamento i medici itineranti impartiscono di città in città. In un'ottica analoga si pongono anche sofisti itineranti come Protagora, poeti tragici come Euripide e poeti lirici come Pindaro, nei quali però la coltivazione è assunta a modello analogico del processo di perfezionamento morale. Tratto comune a tutti sembra essere l'intento di sottolineare la difficoltà che l'uomo incontra nel realizzare i propri fini, nell'ambito dell'apprendimento di un sapere tecnico tanto quanto nell'ambito dell'acquisizione di una vita buona.
Dalla platea ateniese del teatro tragico come dai palcoscenici della poesia lirica, dai consessi dei sofisti come dagli uditori dei medici alle piante si guarda come a uno specchio della fragilità della condizione umana, soggetta ai rovesci della sorte e ostacolata nel conseguimento di benessere e prosperità, proprio come una pianta è esposta a fattori di distruzione e talora non sopravvive neppure con il sostegno della coltivazione.
A questa sconsolata constatazione non di rado si accompagna la lucida consapevolezza di una desolante malvagità della natura umana. Dalla platea ateniese del teatro comico, Aristofane punta il dito sulla misera vita di chi in città sperimenta sulla propria pelle i costi della fragilità umana e volge alla campagna circostante lo sguardo nostalgico del rimpianto di un'abbondanza perduta.