L’art. 72 della Costituzione italiana prevede che ogni disegno di legge presentato ad una delle due Camere debba essere prima esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa che l’approva articolo per articolo e con votazione finale. Il Regolamento di ciascuna delle due Camere stabilisce che possano essere adottati procedimenti abbreviati per i disegni di legge per i quali è dichiarata l’urgenza. Sono inoltre previste ipotesi nelle quali l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti alle commissioni competenti in materia. L’ultimo comma prevede che la procedura “normale” di esame e di approvazione “è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di ratifica dei trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi.” In quest’ultima categoria rientrano le leggi di bilancio sia di previsione che di consuntivo. Il termine “sempre” non è stato utilizzato a caso dal legislatore costituzionale. Esso assume il significato di inderogabilità e tassatività della procedura di esame e approvazione delle leggi di maggiore rilevanza costituzionale e politica. In particolare, la legge di bilancio rappresenta il documento di politica economica più importante dell’anno, dal quale dipendono i conti pubblici dell’Italia per l’anno successivo e gli obiettivi dei successivi 3 anni.
Il richiamo alla Costituzione è necessario per comprendere come, in occasione dell’approvazione della legge di bilancio da parte della Camera dei deputati del 29 dicembre 2018, la procedura costituzionale sia stata apertamente violata, anzi ignorata, da Governo e Parlamento, tanto da potersi affermare che, per la prima volta nella storia della Repubblica, il Parlamento (maggioranza e opposizione) ha votato una legge di bilancio di cui ignorava totalmente il contenuto. Per assicurare al Parlamento un adeguato spazio di esame accurato del testo (normalmente assai complesso e comprendente centinaia di argomenti del tutto diversi tra di loro, disciplinati da centinaia di articoli e commi) la legge n. 196 del 2016 prevede il rispetto di una tempistica, che, se pure suscettibile di lieve flessibilità, scandisce le tappe dell’iter legislativo in materia, dalle note di aggiornamento al DEF (27settembre), alla presentazione alla Commissione europea del documento programmatico (15 ottobre), dalla presentazione del disegno di legge in Parlamento (20 ottobre) alla sua approvazione definitiva (31 dicembre e, infine alla sua entrata in vigore (1° gennaio).
Le esigenze dei due partiti di governo di introdurre, ciascuno in concorrenza con l’altro, la maggiore quantità possibile di punti del proprio programma elettorale (in altri termini: delle promesse fatte al proprio elettorato), e, ancora più, per evitare la procedura di infrazione preannunciata dalla Commissione nel caso non fossero rispettate le regole di bilancio, non hanno consentito di rispettare la tempistica, ché anzi si è presentato alla Camera dei deputati un testo provvisorio da approvare in tutta fretta, mentre se ne preparava un secondo, da presentare al Senato del tutto diverso dal primo (!). I deputati, hanno pertanto approvato un testo sapendo bene che si trattava di una bozza già superata dalle trattative in corso con l’UE.
Il testo definitivo della manovra passava all’esame del Senato dove veniva approvato in tempi strettissimi e quindi, tornava alla Camera in terza lettura per l’approvazione definitiva. Il 27 dicembre, infatti, approdava alla Commissione Bilancio che non disponeva ancora della versione definitiva; il giorno dopo (per la precisione nelle prime ore del pomeriggio) arrivava in aula, nella quale il governo per blindare il testo, poneva la questione di fiducia presentando un maxiemendamento che raggruppava in un unico articolo l’intero provvedimento. Impossibile non solo l’esame, ma neppure una fuggevole lettura, trattandosi di un testo di oltre duecento pagine e di millecentoquarantatre commi! Il 29 dicembre avveniva l’approvazione definitiva ed il 30 la legge veniva promulgata e pubblicata con carattere di urgenza sulla Gazzetta Ufficiale con il numero 145.
Si potrebbe obiettare che la ristrettezza dei tempi era stata determinata da circostanze eccezionali e soprattutto dalle trattative con le istituzioni europee al fine di trovare un accordo su alcuni aggiustamenti tendenti a ridurre il rapporto deficit-PIL dal 2,4% allo 2,04%, con le conseguenti riduzioni di spesa e aumenti delle entrate, ma si tratta di argomenti che riconducono i tempi lunghi pur sempre alla responsabilità del Governo che era perfettamente consapevole che l’UE non avrebbe approvato il testo originario della manovra e ciò nonostante aveva inteso sfidarla in un braccio di ferro dal quale (sapeva anche questo) sarebbe uscito perdente.
I costituzionalisti hanno immediatamente colto il grave vulnus che la procedura adottata arrecava alle regole costituzionali che presiedono alla delicata fase dell’esame e approvazione della legge di bilancio. Vulnus che non colpisce soltanto le opposizioni, ma anche la maggioranza parlamentare (in sostanza il Parlamento nel suo complesso nella sua prerogativa principale). Ambedue infatti hanno il diritto-dovere di avere piena conoscenza dei testi legislativi, esaminarli, discuterli, e quindi approvarli. Essere costretti ad approvare la legge fondamentale di bilancio con il ricorso alla fiducia ha impedito infatti all’organo legislativo il controllo sulla politica finanziaria del governo, sul rispetto delle regole costituzionali in materia, la compatibilità con gli equilibri di bilancio, la relativa copertura, così come dispone l’art. 81 della Costituzione, oltre, beninteso il rispetto delle regole comunitarie e delle prescrizioni dettate dalla Commissione Europea. Si sarebbe di fronte a una abdicazione forzata delle prerogative di un organo costituzionale, come il Parlamento, in favore del Governo, che assumerebbe in tal modo un potere legislativo illegittimo e incostituzionale. Non a caso la Costituzione, come prima ricordato, vieta che in materia di bilanci consuntivi e di previsione sia ricorra alla fiducia. Per le opposizioni sarebbe ancora peggio. Private della tribuna parlamentare esse non avrebbero di fatto alcuna possibilità di fare sentire la propria voce. Sembra di sentire il monito “Le minoranze non hanno altro diritto che quello di tentare di divenire maggioranze”, sintesi spietata del pensiero politico della dittatura della maggioranza, verso la quale sono avviate le “democrature” europee del nuovo millennio.
La Corte Costituzionale è stata subito interpellata attraverso il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato di cui all’art. 134, comma secondo, della Costituzione, e si è pronunciata il 10 gennaio per dichiarare l’inammissibilità del ricorso che era stato proposto da 37 senatori dell’opposizione. Esso denunciava la grave compressione dei tempi di discussione del Ddl, che avrebbe svuotato di significato l’esame della Commissione Bilancio e impedito ai singoli senatori di partecipare consapevolmente alla discussione e alla votazione. In assenza della motivazione della sentenza, che sarà pubblicata tra qualche mese, bisogna rifarsi al comunicato n. 10 diffuso dalla Corte il giorno stesso dell’udienza. la Corte ha anzitutto ritenuto che i singoli parlamentari sono legittimati a sollevare conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale in caso di violazioni gravi e manifeste delle prerogative che la Costituzione attribuisce loro, per poi dichiarare l’inammissibilità del ricorso, non già per difetto di legittimazione dei proponenti, ma solo in quanto le violazioni denunciate non avevano raggiunto quel livello di manifesta gravità che, solo, potrebbe giustificare il suo intervento.
Ad attenuare, ma nello stesso tempo a contraddire quanto poco prima ritenuto, la Corte sente il bisogno di aggiungere che “Resta fermo che per le leggi future simili modalità decisionali dovranno essere abbandonate altrimenti potranno non superare il vaglio di costituzionalità”. Sembra quasi che la Corte abbia adottato un criterio quantitativo; la procedura riconosce che il vaglio di costituzionalità potrebbe colpire in caso di reiterazione di simili modalità decisionali”. In questo caso, però, vari fattori esterni avrebbero concorso “ad una anomala accelerazione dei lavori del Senato, anche per rispettare le scadenze di fine anno imposte dalla Costituzione e dalle relative norme di attuazione, oltre che dai vincoli europei”. Insomma, si sarebbe trattato di una mera “anomala accelerazione”, accettabile in modica quantità, ma di cui non è bene abusare.
In verità, i problemi sollevati dalle procedure di approvazione della legge di bilancio 2019 sono molto più complessi di quelli che appaiono a prima vista. È in gioco infatti l’autonomia ed il ruolo stesso del Parlamento in una democrazia che si definisce di tipo parlamentare ma che sembra congedarsi gradualmente da tale tipologia. L’ondata autoritaria che è montata nella politica europea negli ultimi anni e l’affermarsi nei paesi del Visegrad di regimi di democrazia illiberale, tende inevitabilmente ad esaltare il ruolo dell’Esecutivo a scapito degli altri due poteri, Parlamento e Giustizia, che ne compongono l’indissolubile assetto costituzionale, ponendo in discussione l’esistenza stessa dello Stato di diritto, tipico delle democrazie occidentali.
Per tutelare l’indipendenza e l’imparzialità dei membri del Parlamento e sottrarli alla dipendenza dai partiti di provenienza, la Costituzione si era premurata di assicurare una copertura legale rappresentata dal disposto dell’art. 67, secondo il quale “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincoli di mandato”. Norma che quasi tutti i partiti gradiscono quanto il fumo negli occhi tanto da cercare di aggirarla applicando vincoli di fedeltà e obbedienza alla linea del partito di appartenenza la cui violazione è sanzionata da procedimenti disciplinari o da sanzioni pecuniarie, provvedimenti in aperta violazione dell’art. 67 e come tali incostituzionali.
Ad emarginare il ruolo del Parlamento, dopo la riduzione dei parlamentari a comprimari passivi del processo legislativo, interviene la proposta di riformare la Costituzione per introdurre a fianco del referendum abrogativo (che verrebbe anch’esso modificato con un sostanziale abbassamento del quorum), anche quello propositivo, in base al quale 500.000 cittadini potranno presentare una proposta di legge che, in caso di mancata approvazione da parte del Parlamento entro diciotto mesi, darebbe luogo ad un referendum propositivo, in esito al quale la proposta popolare diverrebbe legge se raccogliesse la maggioranza dei votanti, a condizione che il numero dei voti favorevoli raggiunga il numero del 25% dei cittadini aventi diritto al voto. Non più quorum partecipativo, come avvenuto sinora, ma quorum deliberativo. La produzione legislativa di fonte parlamentare tenderebbe in tal modo a cedere il passo alla produzione referendaria, seguendo modelli di democrazia diretta.
Qualcosa di simile era previsto nella più ampia riforma costituzionale del governo Renzi, che venne bocciata in sede di referendum confermativo della legge costituzionale approvata in Parlamento. A prescindere dalla sorte del progetto referendario, la sola proposta contribuisce a rafforzare il timore di un progressivo slittamento del nostro assetto costituzionale verso derive di tipo autoritario, di tipo peronista, in linea peraltro con quanto sta avvenendo in buona parte dei paesi europei, come già segnalato negli interventi precedenti.
A rafforzare queste perplessità ed a costo di apparire ripetitivi, non può non tenersi conto dei cambiamenti che sono davanti ai nostri occhi nella comunicazione politica dei nostri uomini di governo più rappresentativi. Il consenso viene misurato attraverso i sondaggi o dal numero di followers sulle reti sociali, viene ricercato attraverso una ininterrotta campagna elettorale condotta giorno per giorno con lanci di messaggi, che riducono la comunicazione politica a slogan, di poche battute. Non è un caso che la comunicazione dell’attuale ministro degli interni sia immancabilmente condita di insulti, di scherno, di minacce, rivolte con la protervia dell’impunità, rafforzata dall’uso della divisa di un qualche corpo di polizia (ne restano fuori, per fortuna, le divise dei Carabinieri).
Quest’ultima novità non va ricondotta solo ad esibizionismo di cattivo gusto, ma è il segnale dell’immagine che si vuol dare al paese della militarizzazione del Ministro dell’Interno, dalle maniere spicce e dalla spiccata propensione al comando senza se e senza ma. Dire di un detenuto che deve “marcire in galera”, che, ad ogni provvedimento adottato, per qualcuno “è finita la pacchia” (per la verità andrebbe detto per converso, che la pacchia vera è iniziata solo per l’autore di quelle battute..), ripetere slogan del passato regime, e simili volgarità, non solo richiama un linguaggio da caserma, o se si preferisce, da osteria o da curve da stadio, ma offende il ruolo di difensore della legalità e dell’ordine pubblico di quel ministero, del Governo del paese e dell’immagine stessa dello Stato.
Tutto questo è un’ulteriore offesa per la nostra democrazia, che offre al mondo un’immagine di sciatteria, di volgarità, di prepotenza, più adatta ad un governo sudamericano che ad un paese che ha conquistato la democrazia con la Resistenza e noto per il suo patrimonio culturale e artistico. Ancora peggio se poi si ostentano frequentazioni e simpatie per personaggi provenienti dal mondo della criminalità, del fanatismo delle curve, talvolta anche del sottobosco mafioso. Lo stile è sostanza, come prescrive l’art. 54, comma secondo della Costituzione, secondo il quale “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Una norma pressoché ignorata ormai dal 1994. Sulla grottesca parata mediatica messa in scena per l’arrivo di un criminale estradato dopo lunga latitanza è opportuno parlarne in un successivo intervento dedicato al tema della giustizia.