C’è uno spazio inesprimibile nelle relazioni umane, un’interlinea tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo, il punto nel quale le tensioni precedono il deflagrare di un rapporto familiare, d’amore, di amicizia, di potere.
Silvia Levenson - argentina emigrata in Italia trentacinque anni fa per fuggire dalla dittatura -, racconta quello spazio attraverso installazioni e oggetti in vetro che rivelano il nascosto, cristallizzano il sussurro, imbottigliano l’evanescente. Nelle sue opere, esposte in gallerie e musei in tutto il mondo [1], dà forma all’universo delle buone intenzioni e alla galassia d’illusioni e trappole sociali, trascinandoci in una dimensione fiabesca per sbeffeggiarla e portare alla luce prigioni invisibili. A Milano, la galleria L’originale ospita da metà novembre Sensibili trasparenze, mostra collettiva di artisti contemporanei e designer, della glass art. Tra loro anche Levenson.
«Ho capito che volevo lavorare il vetro un giorno di molti anni fa, quando a New York ho visto i lavori dello svedese Bertil Valien. Oggi uso la tecnica del vetro fuso a cera persa e la accosto anche ad altri materiali», spiega porgendo la voce in modo soave ma per nulla esitante. «In questa collettiva espongo riflessioni intorno alla felicità, rispetto alla quale abbiamo tutti standard troppo alti e allora ci inventiamo strategie cosmetiche. Ho provato a raccontarle con approccio ironico. Perché la felicità è qualcosa di intimo, non può fermarsi all’apparenza».
Strappano sorrisi “Still life”, barattoli e tubi di creme di bellezza chiamati “Trust” “Love” “Self control”; le bottigliette di illusioni “Anti aging” affiancate da mini dinosauri in plastica; i tubi di “Miracles” accanto a icone religiose. E Levenson svela con cinismo divertito anche la quotidianità del focolare domestico creando parodie come “Life strategies”, poltrone e cuscini Ikea riveduti con spunzoni da fachiro tanto invisibili da lontano, quanto pungenti da vicino; o la torta nunziale “Finché morte non ci separi” candida, trasparente, con in cima una rosea bomba a mano «inesplosa ma che può deflagrare, vedi alla voce violenza domestica». L’opera è esposta al Mint Museum di Charlotte, in North Carolina, USA.
E sull’impegno civile e politico si fonda la vita e il percorso artistico di Silvia Levenson. Nata a Buenos Aires nel 1957, ha vissuto la violenta repressione ("Guerra sporca") perpetrata in Argentina contro i comunisti: “Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, poi quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi” parole del generale Saint-Jean governatore durante la dittatura. Così è stato dal 1976 al 1983, sette anni di crimini che hanno annichilito il Paese: 30.000 cittadini uccisi o sequestrati dalle autorità e mai più ritrovati, spesso “scomparsi” perché ammazzati lanciandoli da aerei in volo. Levenson già a 14 anni militava nel partito Rivoluzionario del popolo, d’ispirazione trotskista, e ne aveva 19 all’epoca del colpo di Stato.
Minorenne già viveva in clandestinità perché dissidente...
Faceva parte della lotta. Eravamo convinti di cambiare il mondo e dovevamo essere pronti per la rivoluzione. A 16 anni ho sposato Gustavo, un compagno di partito dieci anni più grande: i miei genitori non erano d’accordo. Io studiavo, già disegnavo ma fare l’artista era troppo borghese e allora sono andata a lavorare con lui in fabbrica. Ho però finito il liceo e frequentato due anni di scuola grafica. Nel ‘76, anno del colpo di Stato, è nata nostra figlia Natalia. Durante la repressione hanno ucciso due miei cugini e una zia è scomparsa. Il nostro secondo figlio, Emiliano, è nato nell’80, in Argentina, ma a quel punto siamo scappati in Italia, viste le origini italiane di Gustavo. Siamo rimasti sposati 30 anni, poi abbiamo preso strade diverse pur restando in ottimi rapporti.
Perché non siete fuggiti prima?
Nessuno pensava che la dittatura durasse così tanto e credevamo che gli scomparsi fossero solo clandestini. Il governo di Isabel, moglie di Peron, era totalitario, lasciava fare le forze paramilitari che combattevano i dissidenti, ma una mattina i militari hanno preso il potere con la forza. Nessuno ha protestato perché il governo era già antipopolare. Nessuno ha capito che quello “nuovo” era peggiore. Si diceva che avrebbero fatto accordi con le forze civili. Invece. Il pericolo di una dittatura è sempre dietro l’angolo. E le conseguenze di quegli anni sono ancora ferite tangibili, nonostante la giustizia fatta grazie anche all’impegno supremo delle Madri e delle Nonne di Plaza de Mayo. Non sono politiche, ma si sono organizzate per fare luce su quel pezzo di storia orribile. Le nonne hanno creato una banca del DNA per rintracciare i bambini scomparsi o adottati illegalmente, o nati da mamme che nei campi di concentramento venivano fatte partorire prima di essere uccise e poi i loro figli venivano dati in adozione alle famiglie dei militari. Il mio lavoro “Identidad desaparecida” è dedicato a tutti loro.
Un’opera che ha conquistato riconoscimenti ed è stata esposta, oltre che in Europa, in America, Asia, attualmente è nel Museo Memorial de la Resistencia Dominicana, a Santo Domingo. Eppure, questa storia che la tocca da vicino, ha trovato spazio nella sua arte solo in anni recenti.
Certi nodi necessitano di una lunga metabolizzazione. Alla fine degli anni Ottanta, quando imparavo in Francia la tecnica del vetro fuso, sono tornata in Argentina. Incontrai mio zio, mi raccontò dei miei nonni russi, ebrei e comunisti emigrati in Argentina; di una zia, prima donna dirigente nel partito comunista. Tutte cose che non sapevo perché mio padre le aveva taciute per vergogna. Scoperte che mi hanno reso chiaro il percorso artistico che avrei intrapreso: una nuova forma d’impegno civile. Ho iniziato lì, ma l’ho presa larga, affrontando i temi delle relazioni famigliari, dell’infanzia non protetta e dell’impossibilità degli adulti di difendere i bambini; e poi ho affrontato la violenza sulle donne. In seguito i desaparecidos, che ho presentato in mostra la prima volta proprio nella casa delle Nonne di Plaza de Mayo, ex campo di concentramento dove è stata deportata la moglie di mio zio, poi assassinata con i voli della morte sul Rio della Plata. Da quel momento per anni ho canalizzato l’energia su questo tema e nel 2014 il percorso “Identidad desaparecida” è arrivato al suo compimento, risultato di un lungo corpo a corpo.
Percorso che Silvia Levenson racconta con grazia insidiosa: altalene vuote sospese sopra scarpette di vetro a misura di bimbo; file di abitini mignon appesi al muro che a distanza appaiono sfumati - come il male quando è lontano - ma avvicinandoli diventano presenze di assenti, agitano fantasmi, dolore, ferocia e perturbano intimamente perché vitrei secondo l’accezione di fissi come occhi sbarrati sull’indicibile. Il vetro di cui sono fatti contiene i tormenti e la forza concreta dell’artista, frangibile ma resistente alla corrosione della Storia e del tempo e perciò capace di consegnare la memoria al futuro: ci vogliono millenni perché il vetro si biodegradi. E la freddezza della materia colloca le opere in uno spazio-tempo sospeso, invita chi guarda a prendere coscienza della banalità del male in modo distaccato innescando proprio per questo un vortice di emozioni.
Tecnica, cuore e storia di cui è portatrice, da undici anni Silvia Levenson li trasferisce a giovani artisti in workshop in giro per il mondo. «A Berlino sto facendo un corso con dei rifugiati, in collaborazione con Pergamomonmuseum e Berlin glass studio. Alcuni di loro facevano lavori creativi, riavvicinarsi all’arte li riconnette alla propria identità e io so cosa significa, almeno credevo. Un giorno a un ragazzo ho detto: anche a me quando vado in Argentina manca l’Italia e quando sono in Italia mi manca l’Argentina. E lui: “ma la città dove sono nato io non c’è più, è stata distrutta, non può mancarmi”. Una stilettata. Sarà materiale per un prossimo lavoro, perché forse l'arte non può cambiare il mondo – chiosa - ma può cambiare la nostra percezione e il modo in cui lo vediamo».
[1] Presente in collezioni pubbliche e private, tra cui: Fine Art Museum Houston, New Mexico Museum of Art Santa Fé, David Owsley Museum of Art Indianapolis, Collection Casas de las Americas Cuba, Comune di Castelvetro Modena, Fondazione Remotti Camogli, Fondazione Banca San Gottardo.