«L’Africa può essere il nostro futuro, un laboratorio per un nuovo sviluppo capace di invertire la rotta del Pianeta. Per le sue immense ricchezze naturali si presta a un avvenire ecosostenibile. Spetta alle nuove generazioni cogliere l’opportunità, ma devono essere istruite. Vogliamo davvero aiutare gli africani “a casa loro”? Occorre coraggio da parte di chi governa qui e nei Paesi che invece qui vengono con le loro multinazionali i cui guadagni emigrano altrove. L’Africa occidentale è ricca di oro, ma i processi estrattivi usati dalle imprese straniere sono inquinanti, devastano le zone agricole e la popolazione resta senza lavoro. Le aziende straniere corrompono i governi locali per operare senza controlli. I governanti locali imboscano i soldi nei paradisi fiscali e il corto circuito è innescato. Coraggioso sarebbe rifiutare certi accordi. Gli africani emigrano, certo: la popolazione è in maggioranza di giovani e sono troppi rispetto alle opportunità di occupazione, anche nei paesi con buone economie come Senegal, Costa d’avorio, il lavoro per tutti non c’è. Così, come accade ovunque, si cerca di andare dove si può vivere meglio, ma al contrario di quanto si crede in Occidente, la maggior parte non sceglie l’Europa. I congolesi “miei connazionali” migrano nella Repubblica del Sudafrica, in Zimbabwe, Zambia, Brasile, Canada. Invece per chi scappa da tragedie, da Paesi come Sudan ed Etiopia, ogni meta va bene purché sia in altri continenti e, nella disperazione, si è disposti anche a seguire barconi della morte. Poi c’è chi prova semplicemente a seguire un sogno. Noi italiani nel Novecento seguivamo il sogno americano. Loro oggi quello europeo. Io negli anni Settanta sognavo l’Africa».
Riccarda Vivarelli, nata povera in canna e cresciuta nella provincia dell’Appennino Tosco Emiliano, oggi è un’artista affermata: ha trovato riconoscimenti di critica e pubblico tra il Congo, la Costa d’Avorio, la Tunisia esportando la sua arte in Europa e in America. Un’emigrata al contrario.
Negli anni Sessanta con la famiglia, in cerca di una vita migliore, trasloca a Milano dove si forma e la sua anima in movimento trova spazio grazie alla pittura, contro la volontà dei suoi perché «con l’arte non si campa, men che meno la figlia di proletari». Eppure vince lei. S’iscrive all’Accademia e per pagarla fa vendite porta a porta, cameriera, comparsa per gli sceneggiati della Rai «un lavoro ben retribuito e in più potevi mangiare alla mensa per un prezzo stracciato», ricorda Riccarda. Lavora, studia e frequenta il bar Jamaica a Brera, allora quartiere di artisti in cerca di fama o affamati di cibo, ma anche celebri: «potevi trovarti a bere il caffè accanto a Fontana, Crippa, Dova, Brindisi, Pomodoro, Bianco – racconta Riccarda -. C’era confronto e capitava di vedere questi maestri al lavoro nel loro studio». Lei si misura col suo talento e Milano glielo conferma: inizia a vendere le proprie opere e intanto si fa largo il desiderio profondo di partire per scoprire orizzonti diversi che si dischiudono in Congo, «all’epoca Paese pacifico che mi ha aperto il cuore sulle bellezze e gli occhi sui contrasti di un continente che cattura l’anima più nascosta di ogni “essere umano”». Poi, al ritorno in Italia, il destino le apparecchia la svolta.
«A casa di amici a Milano comparve Samuel, un ingegnere congolese, sei anni più giovane di me, in città per una formazione presso il Centro Elettrotecnico Sperimentale Italiano. In Congo (allora Zaire, ndr) studiava sotto i lampioni della luce pubblica perché non aveva la corrente elettrica a casa; il padre faceva l’autista e la madre coltivava le arachidi per venderle al mercato; una scuola cattolica di frati e l’università che all’epoca di Moboutu aveva professori provenienti dai paesi dell’Est e dal Belgio, erano state la sua fortuna. Assunto appena laureato dalla società nazionale dell’elettricità, perché il Congo aveva - e ha - immense risorse idroelettriche, nel 1976 lo mandarono in Italia per la formazione. Ed eccolo lì, davanti a me: talmente bello! E con un’educazione d’altri tempi. Quello è stato l’unico coup de foudre della mia vita. Da quel giorno è cominciata la nostra storia». Due anni dopo, Riccarda prende la grande decisione: «Vado a vivere in Africa, comunico a mia madre. E lei: che ti devo dire? Non sono riuscita a domarti quando avevi quattro anni, figurati se ci provo ora che ne hai 30!».
Dunque: Milano-Kinshasa solo andata, anno 1978. Che cosa accade da quel momento?
«All’epoca il Congo era base americana per contrastare “l’avanzata comunista” in Africa. Nella vicina Angola, in piena guerra fredda, prese il potere Agostinho Neto sostenuto dall’allora URSS. L’Occidente non poteva permettere che i comunisti si appropriassero di quei territori ricchissimi di diamanti e petrolio. Pure il Congo Brazzaville era “socialista” anche se sotto tutela della Francia, la cui compagnia petrolifera ELF, divenuta poi Total, ha sempre sfruttato e tuttora sfrutta i pozzi di petrolio di Pointe Noire. Così, per bloccare il comunismo, l’Occidente abbandonò un intero popolo a una dittatura feroce. Volevo tenere negli occhi e nel cuore il paradiso terrestre che conobbi nel mio primo viaggio, invece vedevo povertà, ingiustizie sociali enormi perché anche se la gente era ed è piena di dignità e “proprietaria” di tante ricchezze, vive da diseredata. Per esempio: qui in Congo sono stati scoperti i giacimenti di coltan più ricchi del mondo, circa l’85% delle riserve mondiali, un minerale che oggi usiamo per cellulari, computer, televisioni al plasma; un metallo che ha odore di sangue, di morte, di donne abusate ogni giorno dalla soldataglia che occupa la regione minacciando le popolazioni locali, obbligandole a esodi biblici. Il coltan non arricchisce il Congo, non aiuta lo sviluppo: è esportato illegalmente in Ruanda da dove prende il volo per tutti i Paesi che fabbricano tali device. Questo è accaduto quando sono arrivata: ho aperto gli occhi. Poi ci sono stati momenti difficili con la famiglia di Sam».
Non ti accettavano?
La madre di Sam sì, ma le altre persone anziane erano ostili: memori della colonizzazione belga non volevano imparentarsi con una “mundele” (bianca). Fondamentale fu l’intervento di una bisnonna: convocò tutte le persone contrarie al nostro matrimonio minacciando di scagliare maledizioni su chi si opponeva. Pare ne sapesse molto di pratiche magiche. Non so se fu per questo, ma le cose cambiarono davvero.
E lì continuavi la tua arte
No. All’inizio dovevo capire quel mondo. La mia vicina di casa, una bella donna di Kisangani, laureata in economia, direttore commerciale presso l‘Ufficio Nazionale del Caffè (di cui il Congo era ed è grande produttore, ndr) mi ha aiutato ad accettare la cosa per me più difficile: in Africa non si è – non si può – essere mai soli. I parenti di ogni grado sono sempre in casa, rari i momenti d’intimità. Rifiutare è un affronto. Mi è stato difficile anche accettare la quotidiana contraddizione tra esplosione di sorrisi, gioia, spontaneità mescolati a sofferenza profonda. Non sapevo conciliarle finché non ho imparato a dare. E per dare, visto che all’epoca non avevamo molti soldi anche se Sam lavorava, all’inizio ho improvvisato lavori al limite della legalità, all’insaputa di mio marito. Il ricavato serviva soprattutto ad aiutare gente per gli studi o la salute. Aprii pure un ristorante e in seguito una scuola, dando lavoro ai locali. Poi sono arrivati i figli: nel 1981 Aime, nell’82 Hervé e nell’84 Yannick. Dipingevo ogni tanto, distrattamente, finché un francese vide i miei quadri e disse che ero pazza ad aver smesso.
Intanto la prole cresce, studia, ma gli eventi travolgono il Congo: nel ‘91 scoppiano i primi tumulti causati dai militari che, con l'arrivo di Laurent Kabila al potere, dopo gli anni orribili del genocidio in Ruanda si tramutano nella Prima e Seconda guerra del Congo (‘96-‘97; ‘98-2002.). Per capirne la portata pensiamo alla nostra Seconda guerra mondiale: ha coinvolto una decina di Stati, causato oltre cinque milioni di morti per malattia e fame e molti milioni di profughi richiedenti asilo. Riccarda e i figli si trasferiscono in Italia, Sam resta, cambia impiego e passa alla Banca africana di sviluppo con sede in Costa d’Avorio, ad Abidjan. Lì la famiglia lo raggiunge e per undici anni vivono in pace. «È grazie al popolo ivoriano, di grande cultura, che ricominciai a dipingere e in modo nuovo: cambiavo la luce, diventavo più illustrativa, inserivo tessuti e poi ho avviato una proficua produzione scultorea. In poco tempo fui presentata come un’artista ivoriana sia in Africa sia all’estero. Devo molto a quel popolo».
Nel 2002 però in Costa d’Avorio c'è un tentativo di colpo di stato che taglia il paese in due e sfocia in una guerra civile. Gli stranieri sono i primi a doversene andare. Riccarda e famiglia si confinano a Tunisi. Il tempo di vivere la primavera araba ma poi, in seguito agli attentati, dovranno andarsene. Solo nel 2015 torneranno in Congo. «Sam oggi è in pensione ma non smette di impegnarsi per questo Paese che è il suo e dei nostri figli. Noi speriamo di poter salvare il salvabile evitando di commettere gli stessi errori che sono stati fatti altrove, spiegando che il sogno europeo è diverso da quello americano di ieri e che l’Europa non è l’America, ed è in crisi. L’emigrazione attuale in Italia, per esempio, è sorella di quella favorita da francesi e inglesi per far entrare forza lavoro, senza integrazione, neppure per la seconda generazione. Ce lo confermano anche i nostri figli, che pure sono migranti privilegiati».
I vostri figli sono andati a formarsi in Europa, come aveva fatto il padre. Oggi, laureati, due in economia, uno in architettura, parlano quattro lingue, lavorano tra Madrid, Milano e Berlino.
Li vedo due volte l’anno quando tornano a casa, a Kinshasa. Sono ragazzi senza frontiere. Come dovremmo esserlo tutti.