La coltivazione dell’albero di ulivo e il successivo utilizzo delle olive per la produzione dell’olio nella regione ha origini antichissime. Notazioni sporadiche in epoca romana ci conducono poi a menzione certa della qualità dell'olio di oliva locale a partire dal 1228 quando, alle navi marchigiane che dovevano approdare sul Po, era richiesto un pedaggio consistente in venticinque libbre di olio. Anche i veneziani erano grandi estimatori dell’“olio della Marca”, che rivendevano ad altre popolazioni e mercanteggiavano a un prezzo superiore in funzione dell’aroma e del sapore migliore.
Ancora oggi nelle Marche, grazie a 7.200 ettari di oliveto specializzato viene prodotto un olio extra vergine di oliva di grandi qualità e proprietà benefiche. La qualità e la tipicità dell’olio marchigiano sono il frutto della combinazione di vari fattori: la base varia, il particolare ambiente climatico, le antiche tecniche agronomiche e la tradizione frantoiana. Infatti l’intera regione è nota per la produzione e la lavorazione delle olive, grazie ad alcune zone particolarmente favorevoli a tale coltura. Per molte aziende l’oliva è l’unica e più proficua fonte economica e, pur servendosi di tecnologie avanzate per le varie fasi di lavorazione e produzione, rimane sempre intatto, oltre allo splendido paesaggio di decine di maestosi alberi centenari, anche il sistema tradizionale di raccolta e spremitura in frantoi “d’antiquariato”.
L’origine campagnola è ancora presente e manifesta tutta la sua riconoscenza a questo frutto succulento con rumorose e vivaci sagre di paese, durante le quali è d‘obbligo assaporare olio e olive al naturale o esaltate da basilico, peperoncino o pepe. L’antica e tipica ricetta per le olive all’ascolana predilige le verdi, snocciolate e farcite con carne, uova, formaggio, tartufo e noce moscata, impanate e fritte in olio, ovviamente, d’oliva. Meritano più di un assaggio: il coniglio e il tacchino in porchetta, le lumache al sughetto e i deliziosi e saporiti piatti a base di funghi e tartufi delle colline picene.
Il bosco infatti è il simbolo di un territorio fortemente presente nella quotidianità dei marchigiani e, tra i suoi prodotti più importanti vi è certamente il tartufo. Zone tipiche dove la ricerca di questo ‘oro nascosto’ è praticata da tempo immemorabile sono l’entroterra della provincia di Pesaro e Urbino, e anche la provincia di Ascoli Piceno. Il più pregiato, il più rinomato e il più conosciuto dei tartufi è il Tartufo Bianco che si trova a Sant’Angelo in Vado e Acqualagna, territorio che è divenuto il luogo di eccellenza della tartuficoltura regionale. In parte minore il bianco è presente anche nella altre zone tartufigene della regione ove, invece, prevale la presenza del tartufo nero che ovviamente non è da meno in qualità e prelibatezza.
Nel mese di ottobre, questa grande eccellenza dai profumi ineguagliabili può essere degustata nelle numerose manifestazioni regionali di promozione del prodotto, dove viene servito in mille modi e abbinamenti frutto di elaborazione artigianale o di alta cucina innovativa.
Prodotti tipici da menzionare ve ne sono in ogni dove, ma si può certamente dire che non è Pasqua nel maceratese se sulle tavole, a imbellirle, non figura il “ciauscolo”. Di colore rosso vivo con sottili venature di bianco, ricco di odore e di sapore delicato, deve cedere se allegramente spalmato sul pane appena abbrustolito oppure sciogliersi in bocca se accompagna dei tozzetti di formaggio di pecora tagliati per l’occasione. È un tipico salume di zona, ma l’uso antico della sua preparazione ne chiede rispetto nel parlarne e nel mangiarlo. La nobiltà, di gusto e consistenza, di questo insaccato, considera scrupolosamente persino l’alimentazione dei capi scelti e poi, come vuole la migliore tradizione maceratese, ogni famiglia mantiene segrete certe manipolazioni, aggiunte e sapori, tramandato da una generazione all’altra, per offrire eventualmente al parente, all’amico o all’agriturista, a seconda dei casi, un prodotto garantito nell’originalità e nella bontà. Dopo fasi estremamente delicate, quali la preparazione delle carni, l’aromatizzazione con varie spezie e l’insaccatura in budello di maiale, i cilindri di salame vengono appesi in locali bui ed asciutti per la stagionatura, dalla quale dipende gran parte del buon esito del prodotto se correttamente eseguita tra temperatura, umidità e ventilazione.
Altri protagonisti di questa fantastica cucina sono i dolci marchigiani che prediligono l’utilizzo dell’anice e soprattutto dei fichi; frutti che sono molto diffusi sul territorio visto che un tempo nelle campagne se ne coltivavano in abbondanza e, poiché maturano inesorabilmente tutti insieme, i contadini si davano un gran daffare per conservarli in svariati modi. E certamente li troviamo così come ingredienti principali del lonzino, che, preparato con fichi secchi, mandorle, noci e semi di anice stellato, impastato e infine racchiuso in foglie di fico, prende la forma ed anche il nome del celebre salume.
Una gran quantità di dolci, le lumache e la pizza al formaggio non devono farci dimenticare l’allettante porchetta che, tradizionalmente, viene infilzata su un asse e fatta rosolare lentamente in forno a legna sin tanto che la pelle, intrisa di aglio, pepe nero, sale e fragranze aromatiche, non sia “accesa e croccante”.
Occorre menzionare, nel nostro viaggio ideale in terra marchigiana la particolare e caratteristica gastronomia pesarese che, per ragioni geografiche, unisce l’abilità dell’entroterra contadino, all’indole marinara della costa. Dal mare alla terra le golosità si alternano in un miscuglio di odori buoni e sapori allettanti. Il tipico “brodetto” e l’“arrosto segreto” ovvero una grigliata mista di pesce azzurro, i “garagoli in porchetta” e le vongole sugli spaghetti; e poi dal cuore della provincia una fumante varietà di minestre e brodi, cappelletti e passatelli, gli aromi di limone e noce moscata, pasta e ceci e “cresce tagliate" con grano e polenta e fagioli.
Un trionfo dei secondi è la “pasticciata”: trancio di girello farcito d’aglio, cannella e chiodi di garofano, salato, pepato e profumato di vino, poi ancora la “faraona al coccio”, la “polenta alla carbonara” e le delicate “trote ai limone”. Merita un occhio particolare “l’Ambra di Talamello” alla cui bruttezza nell’aspetto, corrisponde una bontà nel sapore d’inimitabile caratteristica, che rientra nella tradizione centenaria dei formaggi di fossa. Dopo un’attenta lavorazione, le forme di latte misto vengono interrate in tane di tufo e lasciate a rifermentare per il periodo autunnale. Dopo un mese circa, le pezze di formaggio avranno le forme più strane, un odore forte e penetrante ed i colori diversi delle muffe di superficie. Ma attenzione: un’apparenza cosi poco piacevole nasconde un cuore soffice e delicato, un profumo e un sapore che sì collocano degnamente sulle tavole più nobili e nei ristoranti stellati.