Oggi si parla tanto di raccontare storie (o meglio di raccontare tout court o “comunicare attraverso racconti”, vedremo poi perché…), di “storytelling” e di “storytelling aziendale” (o “Corporate”), tutti sembrano vogliano narrare qualcosa e molti pensano di saperlo fare.
Basti pensare che, recentemente, Jeffrey Preston Bezos, imprenditore statunitense, fondatore, presidente e amministratore delegato di Amazon.com, ha dichiarato che il segreto del successo sta nelle narrazioni collettive dei dipendenti. Un nuovo modo di incontrarsi. Ma cos’è questo fantomatico “storytelling”? Domanda seria e impegnativa.
Abbiamo cercato in rete varie definizioni, letto diversi manuali e articoli e dopo aver anche frequentato un bel corso in merito (arrivando a comprendere subito che non è mai abbastanza), siamo giunti alla conclusione che le migliori riflessioni in merito restano quelle di Daniele Orzati, Storytelling Designer di Storyfactory, la prima realtà italiana di “Corporate Storytelling” che unisce esperti di apprendimento organizzativo e marketing narrativo con un gruppo di professionisti di comunicazione visiva, curatori d’arte contemporanea e di progetti editoriali, designer grafici e video-maker. Un team di professionisti la cui missione è quella di aiutare l’impresa a esprimere la propria identità e il proprio capitale narrativo.
In diverse interviste, Orzati ha spiegato anche come è giunto a occuparsi di “storytelling”. La motivazione principale? La voglia di diventare uno scrittore e il culto per la perfezione formale, il cercare metodi sempre più raffinati per farlo in maniera sistematica. Per poi rendersi conto che di tutto questo si poteva fare tranquillamente a meno. Nel frattempo il bagaglio accumulato di modalità tecniche e strumenti, che potevano servire per la scrittura destinata alla Comunicazione Corporate, veniva completato dall’incontro con Andrea Fontana, il Fondatore di Storyfactory. Ed ecco l’impiego in termini lavorativi.
Alla domanda su cosa sia lo “storytelling”, Orzati risponde partendo dalla semplificazione della collega Francesca Marchegiano, la quale usava citare “la forma basilare della fiaba, con i suoi quattro momenti: c‘era una volta… ma purtroppo… per fortuna… alla fine… Quattro momenti che includono tanti sotto-elementi fondamentali per l’articolazione narrativa. Ma il nocciolo è che senza i “ma purtroppo” non accade nulla, non si articola la contrapposizione tra valore e disvalore. La linea di demarcazione tra comunicazione e narrazione non è netta, in parte può esserci una sovrapposizione. E cioè: nella comunicazione possiamo trovare elementi di grammatica del racconto, così come un racconto può essere infarcito di elementi puramente informativi.
Ciò che solitamente manca alle classiche forme di comunicazione, soprattutto all’Advertising, è quello che chiamiamo “sistema dei conflitti”. I “ma purtroppo” si pescano proprio da questo sistema: senza “fatal flaw” non c’è impresa di sanamento da compiere, senza avversari/nemici non ci sono aiutanti/amici, senza sfide non ci sono tesori. Una vita di felicità costante fa solo invidia, e quindi distanzia, mentre le difficoltà generano compassione, e la compassione avvicina”.
Una storia quindi implica empatia, quella di un’azienda è una rappresentazione (testuale e visiva) di un’organizzazione, che allinea i contenuti e gli immaginari del racconto d’impresa con i diversi strumenti, per declinarli su diversi pubblici, un approccio che progetta e guida identità e relazioni d’impresa attraverso le tecniche del racconto per creare valore. Il segreto? Conoscere la storia-racconto degli altri. Tutti vogliamo capire e ritrovarci in un racconto, esso ha ripercussioni psicologiche importanti: quando una persona racconta e un’altra ascolta attivamente (o legge), i cervelli si sincronizzano. E se la storia, per definizione, è una mera cronologia di fatti, il racconto è una rappresentazione. Basti confrontare una descrizione fattuale e cronologica di una compagnia su wikipedia e cercarne poi il profilo aziendale dove magari un video illuminato e attraente ne descriva alcune caratteristiche salienti e accattivanti, oltre che coinvolgenti.
Premesso questo, vediamo ora i sette segreti dello “storytelling” di Andrea Fontana: penetrazione, molteplicità, costruire un mondo, estraibilità, serialità, soggettività, performance. Sono tutti elementi interessanti e che meritano una riflessione.
Penetrazione: una narrazione penetra nelle storie di vita dei suoi lettori e ne determina nuovi percorsi. Si tratta di quello cui si accennava, l’empatia. Entrare in contatto con il lettore e farlo sentire parte del racconto è la grande sfida di chi fa “storytelling”. Ricordo una bellissima campagna wind dove si invitava lo spettatore a comunicare non solo con la tecnologia ma anche diversamente. E subito si va indietro con la memoria e si prende il telefono per chiamare un amico o un anziano genitore che non si sente da tempo…
Molteplicità: una narrazione oggi è trans-mediale, entra ed esce da più canali comunicativi. Le vie della comunicazione oggi sono infinite. Piattaforme di ogni genere e social media vari permettono di diffondere un racconto nel mondo, in tempo reale, con pochi clic…
Costruire un mondo: una storia genera sempre un mondo. Il prodotto mediale è uno spazio che talvolta (spesso, direi) entra in relazione con la vita quotidiana. Intorno a noi, ogni vita una storia, ne abbiamo parlato, basta fermarsi a pensare, anche solo un attimo.
Estraibilità: il mondo della narrazione diventa parte integrante del mondo reale e dalla storia si estraggono linee di sviluppo della nostra identità. Un racconto può facilmente aiutarci, orientarci e farci trovare una via prima solo intravista o del tutto sfuggita.
Serialità: i racconti oggi si aprono, si chiudono e si riaprono. Non solo i pezzi di storia sono dispersi su diversi segmenti all’interno dello stesso medium ma si diffondono in media diversi. Una catena spesso virtuosa, se ben compresa e ben gestita.
Soggettività: le narrazioni (politiche, organizzative, di consumo) sono sempre più soggettive. Si affidano al punto di vista di un personaggio/autore del racconto. Questo genera maggior identificazione. Rivederci in un racconto non è difficile, se ben scritto.
Performance: una narrazione genera una performance di attivazione in termini culturali, è un cultural activators: una attività che dà a tutta la comunità qualcosa da fare. Spesso sulla base di un racconto importante, ci svegliamo, ci attiviamo, reagiamo, vediamo. Ragioniamo, approfondiamo e cerchiamo di capire, questo conta.
Le riflessioni potrebbe continuare, la materia è molto interessante e soprattutto in costante evoluzione. Ce ne sarà l’occasione. Certo resta che provare a fare “storytelling”, soprattutto aziendale, non è semplice ma sfidante, per chiunque scriva. Provare per credere.