Si sente spesso parlare di mafie come di fenomeni emergenziali, da affrontare con gli strumenti di leggi e tribunali speciali, misure di prevenzione personali e patrimoniali (i sequestri e le confische dei beni illecitamente acquisiti), regime detentivo speciale, e altro ancora. In buona parte quegli strumenti di contrasto sopra accennati sono utili e possono efficacemente indebolire la potenza economica e le strutture organizzative, ridurne la capacità espansiva. Il problema è che sono arrivate troppo tardi, con ritardo secolare, che è servito ad assicurare alle mafie una sostanziale impunità, quanto ai loro livelli più alti e più occulti.
Bisogna risalire nel tempo, ai primi del XIX secolo, all’epoca in cui nacquero le mafie, in Campania, Sicilia e Calabria, quasi contemporaneamente. Tutte traevano a loro volta origine dalle fratellanze massoniche giunte in Italia al seguito delle truppe napoleoniche. Il loro nome, fratellanza, era già indicativo, i loro riti di ingresso si rifacevano a quelli, solenni ed esoterici, delle logge, i loro giuramenti assicuravano aiuto reciproco sino al sacrificio della vita, il tradimento era punito con la morte. In nessuna fase della loro lunga vita esse si posero contro lo Stato, le sue istituzioni, le sue leggi; vi convivevano all’interno, per trarre profitto della inefficienza, la corruzione, che regnavano sovrane nello Stato borbonico e che transitarono, senza grosse mutazioni, nello Stato unitario. Ossequienti alle grandi famiglie del baronaggio siciliano, andarono in aiuto dei Mille di Garibaldi nell’impresa di liberare il Meridione, accettarono nel morente stato borbonico del 1861 l’incarico assicurare l’ordine pubblico nella città di Napoli, in attesa dell’arrivo di Garibaldi, intervennero nella seconda metà del secolo nella repressione delle lotte contadine per l’assegnazione delle terre confiscate agli enti ecclesiastici, ottennero vantaggi di ogni genere attraverso il voto di scambio.
In sostanza una convivenza fruttuosa per entrambe le parti, potere politico e mafie. Ovviamente tale convivenza era inframmezzata da operazioni di polizia che servivano alla repressione delle bande che minacciavano l’ordine pubblico, senza tuttavia intaccare un sistema di potere parallelo che si andava affermando sempre più sino agli albori del Novecento. Non molto diverso fu il contrasto condotto dal fascismo, con la nomina del prefetto Mori e del Procuratore Generale di Palermo Gianpietro, durissimo nella repressione di reati come abigeato, sequestri di persona, omicidi. Non a caso, la repressione maggiore si rivolse contro le bande mafiose operanti sulle Madonie e sui Nebrodi, isolate zone di montagna e molto meno nelle grandi città della costa. E quando poi, il contrasto arrivò a toccare i vertici politici e amministrativi del regime, Mori e Gianpietro ottennero cariche prestigiose a Roma e tutto si concluse con la rapidità con la quale era iniziato.
Già alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del secolo seguente una forte ondata migratoria spinse milioni di italiani verso il Canada, l’Australia, gli Stati Uniti. Una parte, certo minoritaria, ma non irrisoria, era composta da uomini provenienti dalle zone di alta densità mafiosa dell’Italia meridionale e nei luoghi di emigrazione, essi crearono strutture organizzative che riproducevano quelle dei loro paesi d’origine, con i medesimi rituali, le formule di giuramento, le cariche e le regole che avevano lasciato. Trovarono lavoro, ricchezza, ma soprattutto società impreparate a queste forme di criminalità, apparentemente primitive, a dialetti pressoché incomprensibili, a simbolismi esoterici, espressione di superstizioni e di leggende.
Negli USA Cosa Nostra (in origine la Mano Nera) trovò terreno favorevole a sviluppo e arricchimento. Si cominciò con le estorsioni in danno dei propri connazionali, si passò quindi alla distribuzione di alcool durante il proibizionismo, che creò ricchezze impensabili (le politiche proibizioniste determinano in ogni epoca l’arricchimento con il traffico delle sostanze proibite o comunque illecite (alcool, poi bische clandestine, prostituzione e quindi droga). Pur con un tasso criminale elevatissimo, la mafia tornò utile al governo USA negli anni della seconda guerra mondiale, prima per assicurate il controllo del porto di New York dai sabotaggi e dai pericoli di incursioni dei sottomarini tedeschi, quindi, dopo l’esito positivo, per assicurare un contatto con la mafia siciliana perché preparasse un terreno favorevole allo sbarco del 1943 sull’isola.
Anche in questo caso l’aiuto fu determinante e si pensò bene di proseguire quella innaturale collaborazione per un progetto futuro, quale quello di fronteggiare (l’esito della guerra appariva ormai scontato) il futuro avversario, l’Unione Sovietica e le sue propaggini nell’Europa occidentale costituite dai partiti comunisti (il più importante dei quali era proprio quello italiano, anche per il ruolo avuto nella Resistenza). Si formò, sotto la regia del Comando alleato, quella che gli storici definiscono la “Santissima Trinità”, l’alleanza tra mafia, Vaticano e Servizi segreti, con il sostegno armato dei reduci della Repubblica di Salò, sotto il comando del principe Valerio Borghese. Fu per la mafia la legittimazione storica, prima ancora che politica, di un ruolo di dominio sulla Sicilia e di controllo sull’Italia, in funzione anticomunista. Un ruolo che l’agente della CIA Victor Marchetti indica con estrema chiarezza quando afferma: «La mafia, per sua natura anticomunista, è uno degli elementi su cui poggia la CIA per tenere sotto controllo l’Italia».
Più chiari di così non si poteva essere e il destino dell’Italia restò da allora segnato e sfregiato sino ai nostri giorni. In cambio dell’aiuto prestato, la mafia ottenne, con decreto luogotenenziale del 15 maggio 1946, una adeguata ricompensa. L’Italia qualche mese prima aveva votato i componenti dell’Assemblea Costituente e aveva decretato la fine della monarchia sabauda e la nascita della Repubblica. Re Umberto, il 15 maggio del 1946 firmò il decreto che approvava lo statuto di autonomia per la Sicilia, poi recepito nella Carta Costituzionale del 1948. Fu quello l’esito della trattativa Stato-mafia, così come la strage del 1° maggio 1947 fu il primo episodio della strategia della tensione. Ma c’è di più. Nel trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947 tra le potenze alleate e l’Italia, era contenuta all’art. 16 la clausola che impegnava il nostro paese a non perseguire tutti coloro che avevano collaborato con il Comando alleato tra il 1940 e il 1947, clausola alla quale era allegato un elenco di 500 uomini ai quali essa andava applicata, tra i quali numerosi capi della mafia siciliana. (art. 16 - L'Italia non incriminerà né altrimenti perseguiterà alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle forze armate, per il solo fatto di avere, durante il periodo di tempo corrente dal 10 giugno 1940 all'entrata in vigore del presente Trattato, espressa simpatia od avere agito in favore della causa delle Potenze Alleate ed Associate).
Dopo le elezioni politiche del 18 aprile 1948, che registrarono la netta vittoria della Democrazia Cristiana, il pericolo comunista si allontanava, ma non la logica degli schieramenti in campo del periodo post-bellico. E quando, tra il 1969 ed il 1980, quel pericolo tornò a farsi minaccioso, quelle forze si rimisero in moto, con le stragi, i tentativi di colpi di stato, l’omicidio di Aldo Moro. E anche quando una nuova generazione di politici, magistrati e organi investigativi, non più condizionati dai retaggi del passato, passò ad una diversa e più decisa strategia antimafia, la reazione che ne seguì fu sanguinosa e una lunga catena di omicidi segnò la storia italiana degli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Le clausole del trattato di pace andavano rispettate e Cosa Nostra difendeva la sostanziale impunità di cui godeva, facendo ricorso alle armi. Seguì la coda finale rappresentata dalle stragi del 1992-93.
Con la fine della guerra fredda e la caduta dell’impero sovietico, la situazione cambiò radicalmente; le mafie italiane avevano cessato il loro ruolo di guardiani dell’anticomunismo e furono cooptate nel grande circuito dell’economia nazionale, dell’imprenditoria e della finanza, grazie anche agli enormi profitti assicurati dal traffico di stupefacenti. Sopravvivono vecchi arnesi di una Cosa Nostra, in gran parte smobilitata, nonostante i mezzi di informazione non cessino dall’offrire il quadro oleografico di mafie crudeli, arcaiche e ancora dedite a vecchi rituali, per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal volto nuovo, integrato e affaristico che esse si sono date, ampliando la propria attività in Europa e nel mondo, dopo avere saturato il territorio nazionale.
Fra i temi del dibattito politico, il contrasto alle mafie è praticamente sparito e quando se ne parla, si rimane ancorati a metodi, schemi, e apparati normativi, messi in atto negli anni ’90 ed oggi ormai superati. Andrebbero studiate nuove strategie, in grado di mettere in discussione i due pilastri sui quali il potere mafioso si regge: la legittimazione assicurata dal rapporto con i poteri forti e quelli occulti (politica, istituzioni, servizi, massoneria, destra eversiva) e dai proventi del traffico di droga. Insomma un definitivo superamento dell’alleanza occultata nel fondo oscuro della Repubblica, una messa in discussione del proibizionismo in materia di droga, ma ci vorrebbe grande coraggio e forte volontà politica. Al momento mancano. Ne parleremo ancora.