C’è una parola che gli sembra immodesta, la pronuncia con pudore e quasi non vorrebbe, ma è quella che sola un po’ descrive gli attimi mai provati prima, nemmeno con una ragazza amata, che placarono il suo tormento, un’angoscia dissolta al suono di una chitarra malmessa, con una corda sola, alla quale ne aveva aggiunte altre senza apparente criterio. Beatitudine. Non è recalcitrante per posa, lui non posa, e ha una spontaneità intelligente molto rara: la parola è beatitudine e, allora, diciamola.
Ganesh Del Vescovo è nato in un nulla alle pendici del Gran Sasso, un luogo isolato dove non c’erano negozi, Ronzano, e la sua famiglia contadina non aveva idea che esistesse la musica classica. Lui non andava a scuola, ma come un folle, così pareva ai suoi genitori e alla gente del paesello, passava nottate intere a suonare uno strumento di fortuna trovato da certi zii romani che l’avevano ospitato in una casa accanto al Colosseo, quando aveva quattordici anni. “Presi in mano quella chitarra con una corda sola e cominciai a pizzicarla, affascinato. Improvvisavo. Era bellissimo. Aggiustai la chitarra, l’accordavo come volevo. Improvvisavo, sulla terrazza romana o nel silenzio assoluto della campagna abruzzese”.
Ci fu un uomo che non lo considerava un pazzo per quelle notti insonni passate con la musica, forse era il segretario della rinomata Accademia Musicale di Pescara, forse no, Del Vescovo non se lo ricorda o non lo seppe mai. Non sapeva niente, all’epoca, continuava a non aver mai sentito la musica classica, a comporre senza conoscere le note, a gioirne. “Vivevo in un mondo incontaminato, diverso da quello vero. Questo signore veniva a trovare alcuni parenti a Ronzano e mi disse che voleva portarmi da qualcuno che sapesse ascoltare: Alvaro Company”.
Alvaro Company, allievo di Segovia e maestro di generazioni di chitarristi. In qualche modo Ganesh s’informò e capì di dover andare. Si presentò con la sua chitarra “modificata”, alla quale aveva aggiunto le corde che gli facevano comodo, e una naturalezza inscalfibile. Company era infastidito da una luce al neon difettosa e quando infine trovò la stanza giusta per la piccola audizione rimase molto impressionato dal talento del giovane alieno: lo giudicò straordinario, gli chiese con chi aveva studiato, scoprì che il ragazzo non conosceva nemmeno il pentagramma e decise che gli avrebbe dato lezioni gratis, a Firenze.
Il trasferimento da Ronzano, Gran Sasso, alla colta capitale mondiale dell’arte, fu un’altra avventura dissennata, a ripensarci, ma all’epoca Del Vescovo la trovò del tutto normale, e in cuor suo anche adesso, è che non la racconta mai e quando viene fuori sembra strana. A Firenze serviva un tetto. Che cosa di meglio di una roulotte scassata ricevuta in dono in Abruzzo? Bastava sistemarla, metterle una targa finta, attaccarla all’auto del padre, portarla in terra fiorentina e posteggiarla da qualche parte. “Il mondo è di tutti, no? Questo pensavo allora”.
Con il proverbiale favore delle tenebre Ganesh lasciò Ronzano, accompagnato dal fratellino Maurizio, complice di una vita, e da un amico: furono subito fermati da due poliziotti che li scoprirono senza patente, con una targa fasulla e un gancio di rimorchio “non omologato”, espressione che Ganesh comprese a fatica: “L’ho fatto io, funziona, replicai. Raccontai la verità. Mi credettero, imposero il silenzio su quell’incontro e ci accompagnarono al casello”. I poliziotti buoni di Ganesh Del Vescovo.
Ne incontrò un altro, alto in grado, appassionato di musica. Accadde qualche tempo dopo, quando lo portaroro in caserma, a sirene spiegate, perché aveva parcheggiato il caravan in piazzale Michelangelo, che gli era sembrato un gran bel posto. Ai tempi omicidi perversi, misteriosi, ricorrenti insanguinavano le colline toscane e i personaggi insoliti non erano particolarmente apprezzati. Che Del Vescovo fosse innocente non ci volle molto a capirlo, tuttavia, di quel Candide non sapevano che farsene e volevano rispedirlo nelle sue terre remote. Di dissequestrare la roulotte pirata, poi, manco a parlarne. Arrestatemi, diceva lui, ormai entusiasta allievo di Company, da qui non mi muovo. Non lo arrestavano, per mancanza di reati. Una volta Ganesh lesse “comandante” su una porta ed entrò. Il comandante volle sapere tutta la storia, ne fu impressionatissimo e lo aiutò a trovare uno spiazzo per la roulotte, a Prato: “Rimasi lì due anni, non avevo un soldo e vivevo con cinquantamila lire al mese spedite da mio fratello Maurizio. Erano poche”.
Tanto dei soldi non gli importa, non gliene importa proprio. “Per me la musica è la ricerca di me stesso, e anche adesso che la situazione italiana è un disastro e molti miei colleghi sono disperati, io non lo sono. Non ho mai chiesto di fare un concerto, sì, mi piace diffondere le mie composizioni, ma…”. Ma se non le diffonde sta bene lo stesso purché le melodie gli pervadano l’animo di suggestioni celesti. Quando i concerti li fa è applauditissimo: poche settimane fa al Lyceum di Firenze gli hanno chiesto una miriade di bis. Mario Luzi, il poeta che più volte sfiorò il Nobel, scrisse che ascoltarlo porta “in una sfera particolare e tuttavia comunicativa e in certi momenti irradiante”. Per l’illustre critico Leonardo Pinzauti Del Vescovo offre anche i pezzi più difficili, quelli che richiedono “uno scaltrito magistero tecnico con la delicatezza, la fantasia e la saggezza di chi considera la musica in sé, quale che sia, un bene da custodire gelosamente, più che un mezzo per ostentare la propria bravura”.
Si chiama Ganesh, il suo nome spirituale ed anche il suo nome d’arte, al principio adottato per gioco, Ganesh, come il dio indiano dalle fattezze di elefante, e non viene voglia di chiedergli il suo nome di battesimo che non usa più, pratica lo yoga e in India si sente a casa: chitarrista di professione e compositore ama la musica indiana e Bach. Sulla scrivania del suo studiolo, affacciato su un giardino fiorito di glicine che fu di uno scultore, e ora appartiene a persone fondamentali nella sua vita, c’è da studiare una partitura del “musicista senza tempo”. Company gli suggerì di iscriversi al Conservatorio e lui lo fece, siccome non aveva la licenza di terza media, la prese da privatista e fu ammesso primo in graduatoria con il massimo dei voti e si diplomò in chitarra, unico a Firenze, con medaglia d’onore. “Ma non mi corrispondeva, non ho mai creduto negli studi del Conservatorio, ho deciso di finirli per liberarmene, continuando a studiare la musica indiana”.
E dopo tanti anni e tanto cammino? “Più si va avanti, più ci si rende conto di non sapere niente. E i dubbi arrivano sempre: sto facendo la cosa giusta?”. Ha degli allievi e a ognuno insegna cose diverse, in un modo diverso: secondo la loro natura. “La mia ricerca interiore non la insegno ma, che siano istintivi o intellettuali, la percepiscono”. Impossibile non percepirla, proprio per quella spontaneità intelligente molto rara che arrivò al cuore dei poliziotti.