Un tappeto di nuvole rotto dalle cime innevate di alcune montagne che si stagliano all’orizzonte. Al centro, nello squarcio che mostra il paesaggio sottostante, il motore di un’auto da corsa con le prese d’aria dei carburatori in primo primo, dalle quali fuoriescono a mo’ di missili due rossetti per le labbra, e grandi tubi di scappamento laterali il cui fumo scuro diventa tutt’uno con il denso vapore delle nubi. Sopra, sospeso nell’aria, un mezzo busto in abbigliamento natalizio ma con tanto di vistoso décolleté, mazzo di fiori e orologio. E se non bastasse questa copertina più che bizzarra (e volutamente kitsch), ecco il titolo «La morte potrebbe essere il vostro Babbo Natale» a darci conferma di tutto l’eccentrico potenziale di una band sconosciuta ai più ma capace di firmare una delle pagine maggiormente visionarie e imprevedibili di tutta la scena inglese del periodo.
Già responsabili di un primo lavoro (Reality, 1968) che portava in nuce molti degli elementi costitutivi dell’album successivo, è con questa uscita discografica che i Second Hand (con formazione parzialmente rinnovata e ampliata) ci offrono quello che a buon diritto può esser considerato uno dei dischi più eterogenei e irriverenti di un panorama spesso così serioso come quello del cosiddetto rock progressivo. Death may be your Santa Claus, infatti, uscito per la mitica etichetta Mushroom e colonna sonora di una misteriosa pellicola che pare sia stata anonimamente finanziata da John Lennon e Yoko Ono, non è solo un caleidoscopio di umori e stili ma un geniale rimescolamento di tutti quegli ingredienti che sinora avevano fatto la fortuna di quello che la critica negli anni si è compiaciuta di definire hard-progressive. Nel calderone dei Second Hand c’è tutto: il freak più delirante, il sinfonismo magniloquente tanto caro al genere di cui sopra, le ritmiche complesse giocate su scansioni dispari e repentini cambi di tempo, le continue divagazioni tastieristiche, l’enfasi vocale stemperata da saltuari rallentamenti e infiammata da accelerazioni improvvise, il tutto rimodellato in un grande pastiche che il più delle volte sa di beffa e parodia.
La title-track, con i suoi stacchi quasi marziali di organo e batteria, sembra un classico incipit prog, ma è questione di pochi secondi e ci si ritrova spiazzati da una voce a tratti ruvida e sgraziata e a tratti enfatica e profonda che tanto ricorda quella del primo Arthur Brown. Hangin’ on an Eyelid e Somethin’ you got sono due canzoni brevi, sfrontate, strambe, una dominata dal martellamento del piano l’altra dalle fughe dell’organo. Lucifer and the Egg, il brano più lungo dell’album, mette ancora in evidenza le tastiere e la voce, sorrette però da un percussivismo sfrenato e di grande impatto. Cyclops, per buona parte, è un pezzo lento, quasi minaccioso, addirittura pinkfloydiano nel suo incedere torpido e ipnotico, ma che riserva un finale inaspettato fatto di sviolinate, richiami a Bach e contrappunti di chitarra. Sic Transit Gloria Mundi e Take to the Skies sono dei divertissement elettronici, condotti con tutta la sfacciataggine zappiana di cui era capace questa band londinese. Nella breve Revelations Ch.16, Vs. 9-12 prevalgono invece toni futuristici e inquietanti, un certo alone apocalittico che fa da preludio a Death may be your Santa Claus (reprice), forse il brano più coraggioso e composito, nel quale trovano spazio tutti gli ingredienti dei pezzi precedenti e molto ancora: gli iniziali vocalizzi deformati, i rumori di sottofondo, le armonie improvvise e una certa cupezza di fondo che a tratti potrebbe anche ricordare alcune cose dei King Crimson più criptici. Chiude il disco una Funeral tanto melodica quanto dissacrante e beffarda, degno epilogo di un lavoro indefinibile, totalmente privo di schemi, non facile da di sicuro fascino e straordinaria originalità.
Nella riedizione in cd trovano spazio anche due interessanti tracce (Dip it out of the Bog Fred e Baby R U Anudda Monster) originariamente escluse per motivi di spazio. Esiste anche un terzo album dello stesso anno firmato a nome Chillum. Si tratta di un disco abbastanza raro che contiene jam e provini in studio risalenti alle sessions del secondo disco. Per chi vuole riscoprire il lato più irriverente e meno noto del prog inglese...