Seduta su uno sgabello tra il banco e la vetrina zeppa di merce - dai generi alimentari fino alle stringhe per le scarpe – Martina si godeva lo spettacolo ogni giorno dopo la scuola: dalla prima alla quinta elementare. Era come guardare la televisione versione “odorama”. L’effluvio di baccalà sotto sale mescolato al caffè appena macinato era la colonna olfattiva dei consigli per gli acquisti elargiti da nonno Guido e nonna Angelina ai clienti che entravano nel loro negozio. Martina dalla sua postazione, compostamente seduta, li osservava uno a uno avvicendarsi ognuno con un nome o un soprannome, con la propria necessità di consumo, con un orario preferito per fare la spesa, ognuno con una mania alimentare peculiare, con un contenitore diverso dove riporre la merce comprata e uno dal quale prelevare il denaro per pagare. Quando pagavano. Perché ce n’erano di quelli che “segna sul conto” Angelina! ché in un paesino come Brisighella distribuito nella bassa valle del Lamone, dove i settemila abitanti parlano ravennate ma respirano toscano sotto le cime dell’Appennino che li sovrasta, in un paesino così negli anni Ottanta si andava sulla fiducia come fossero ancora gli anni Sessanta.
Martina Liverani è nata alla fine degli anni Settanta, ma a sentirla raccontare questo pezzo della sua vita pare, appunto, aver visto la luce due generazioni prima. È che l’Italia, piccola ma composita, è tenuta insieme più dai retaggi sociali dei “Comuni”, dei piccoli centri un po’ fuori mano e fuori tempo, che dagli slanci progressisti delle tre o quattro metropoli che adornano il nostro orgoglio modernista. Tanto che ancora oggi è dai siti minori che arrivano più spesso idee gustose, audaci, inaspettate, coraggiose, che delle metropoli hanno sì bisogno, ma non per nascere, piuttosto per salire alla ribalta. La provincia è un hub naturale e Martina Liverani è testimone valente. È, infatti, a Faenza intorno al tavolo di un bar che ha preso corpo il progetto Dispensa, rivista di generi alimentari e generi umani, che ha conquistato l’interesse internazionale. Niente male per una millennial – etichetta con cui passerà alla storia la generazione di precari ingegnosi cui Martina appartiene per un soffio – che ha tante idee, pochi euro e abita in provincia.
Martina, ci racconta chi era lei da piccola?
Una bambina con molta fantasia: passavo giornate in negozio con i miei nonni perché i miei genitori lavoravano, e lì mi concentravo per capire chi fossero le persone in base alla spesa che facevano.
Dimmi che cosa compri/mangi e ti dirò chi sei. Un talento in erba per il marketing o la psicologia.
No, piuttosto il desiderio di “intrattenermi” aspettando che venissero mamma o papà a prendermi. Così inventavo storie o facevo il gioco “degli scaffali a moscacieca”: sfidavo me stessa a indovinare a occhi chiusi le posizioni dei prodotti riposti sui ripiani e… ci riuscivo! In quel negozio ho fatto il mio primo lavoretto: etichettare i prodotti. Grazie alla “vita di bottega” nell’infanzia ho scoperto odori e sapori radicali: amarissimo, dolcissimo, mentre fuori di lì sperimentavo il piacere della piattezza del cibo industriale, come tutti i bambini cresciuti negli anni Ottanta con merendine e cibi surgelati…
Da grande però gli studi l’hanno portata in altre direzioni
Mi sono laureata in Giurisprudenza, l’ho fatto seguendo le aspettative della famiglia e della provincia dove si diventava farmacisti, avvocati, eccetera. Conseguita la laurea ho però subito cambiato: mi sono iscritta a un master di web communication a Bologna. Nata a Brisighella, cresciuta a Faenza, pensare di fare la giornalista e lavorare nell’editoria era un desiderio esotico, ma era il mio desiderio. Dopo un primo impiego in una cooperativa che si occupava di vino, dove facevo soprattutto pratiche legali, ho mollato per lavorare in una rivista di settore, ho preso il tesserino da giornalista e come free lance ho iniziato a collaborare con varie testate, da Mondadori a CondéNast. Scrivere mi è sempre piaciuto, ma mi sono resa conto che nelle redazioni apprezzavano soprattutto le mie idee. Così a un certo punto mi son detta: perché non investire su una mia idea che magari funziona?
Quando ha preso corpo il progetto?
Nel 2012 ho avuto una rivelazione: sono tornata nel negozio dei nonni ormai scomparsi. Dovevamo sgomberarlo per riconvertirlo in appartamento. Lì ho ritrovato il macinino del caffè, la bilancia, la grattugia, l’insegna del negozio dove c’era scritto che si vendeva ancora il burro fuso. In un lampo mi è stato evidente perché scrivo di cibo e che io ero e sono quella cosa lì. Una rivelazione del cuore che ho voluto trasformare in questa rivista.
Un progetto editoriale cartaceo e senza pubblicità, in controtendenza con il mercato. Sfida, passione, calcolo, follia?
Tra il 2012 e il 2013 l’editoria italiana viveva anni orribili: i collaboratori free lance come me venivano lasciati a casa, diverse testate chiudevano. Dovevo far fronte a un futuro precario. Cercavo un piano B. C’era poca roba bella sul cibo in Italia, diversamente dall’estero dove pubblicavano cartaceo e con un approccio da rivista da collezione, così ci ho provato anch’io. Ho radunato a pranzo colleghi e amici di cui mi fidavo: Stefano Scatà fotografo, Enrico Vignoli, penna; Simona Pisanello che ha curato l’art direction per il numero zero; Lea Anouchinsky, fotografa; Simone Sbarbati, penna. Ho sottoposto loro l’idea. Hanno aderito e investito tempo e lavoro, io anche il denaro utile alla produzione, cioè qualche migliaia di euro. Il numero zero lo abbiamo messo in piedi in un anno. E poi sì, abbiamo una passione sfrenata per la carta e siamo folli ostinati e contrari. Idem per la pubblicità: Dispensa vive senza, non la vogliamo sia per estetica, sia perché io non so vendere la pubblicità. Abbiamo scelto la distribuzione solo online con vendita per abbonamento e/o acquisto anche di un numero singolo.
Di quali temi tratta in particolare la rivista?
I numeri sono monografici con temi concettuali per guardare il cibo da un’angolazione diversa. E poi storie di generi alimentari e generi umani. Niente ricette, no recensioni, no apologie dei grandi chef, per essere differenti dagli altri.
Quali ostacoli avete trovato e qual è il vostro pubblico?
È tutto complicato, sempre. Vere difficoltà però non me ne vengono in mente. Siamo tutti molto appassionati anche per questo gli ostacoli si superano in scioltezza. Non è un progetto fatto per business, anche se nessuno lavora come volontario. Ci incoraggiano tantissimo i lettori che sono sia addetti ai lavori, sia giovani creativi che amano leggere in modo onnivoro e guardano il mondo attraverso il cibo.
Di questo percorso che cosa la rende più felice?
Aver capito che dovevo seguire la mia inquietudine e testardaggine, il desiderio di fare cose diverse da quelle “date”. Bisogna sempre provarci, credo.
Quella di Martina Liverani è una storia di provincia che guarda al mondo, emblematica di una generazione – i millennial – avvezza a quel genere di precarietà che non concede prospettive a lungo termine, ma che forse proprio per questo alimenta un’idea nuova di successo che non risiede in ricchezza e fama, ma piuttosto nella capacità di non tradire le proprie attitudini e dimostrare, a sé e agli altri, di riuscire a realizzare ciò in cui si crede con passione vincendo il coro dei “non si può fare”.