Mafie e terrorismo sono state sempre intese, nella storia, nella saggistica, nella legislazione, nella criminologia, nel diritto, come due mondi del tutto distinti, in qualche modo opposti, spesso irriducibili. La loro storia parte da lontano, affonda le radici in epoche remote; le mafie, almeno quelle occidentali, risalgono ai primi dell’Ottocento; il terrorismo è antico quanto la storia dell’uomo; l’uso del terrore, forma di violenza estrema che strazia i corpi, ma, prima ancora, le menti delle vittime, consapevoli di quali crudeli torture verranno loro praticate prima di perdere la vita, fu una modalità di conquista del potere, a volte anche di genocidio a carico di minoranze etniche, razziali, religiose, linguistiche, politiche. Gli esempi sono tanti e non è il caso di darne una sia pur rapida rassegna.
Le mafie, a differenza di forme di criminalità comuni, sia pure dotate di organizzazione, quali bande armate, brigantaggio, contrabbando frontaliero, traffici di ogni tipo, sfruttamento della prostituzione, sono organizzate in società segrete, alle quali si accede attraverso rituali e formule di giuramento; puntano a controllare il territorio sul quale operano, in forma alternativa e concorrente a quello statuale, con il quale intrattengono rapporti sotterranei di reciproca utilità, quali, soprattutto il voto di scambio e servizi criminali che il potere statale non vuole o non può esercitare in proprio. Controllo del territorio equivale a controllo delle attività che in esso si svolgono, quelle economiche soprattutto, ma anche quelle amministrative e istituzionali in senso lato.
Il loro fine è quello di sfruttamento delle risorse economiche, per poi passare al controllo ed alla gestione diretta di gran parte di esse, di condivisione della gestione dell’ordine pubblico, nel silenzio assenso dell’autorità statuale. È chiaro che per realizzare questi fini, l’uso della violenza è necessario, anzi indispensabile. Lo Stato rinuncia al monopolio della violenza e le mafie ne fanno un uso strumentale, funzionale al raggiungimento dei propri scopi, mai indiscriminato, mai gratuito, fine a sé stesso, se non in casi di emergenza e di necessità. Anche la violenza apparentemente solo dimostrativa è funzionale alla manifestazione della propria presenza, occulta per la giustizia statale, ma perfettamente riconoscibile dalla popolazione del territorio, indotta per tale motivo ad assumere atteggiamenti di omertà e di assoggettamento.
È il percorso “classico”, tradizionale, delle mafie, dall’Italia, sino all’Estremo Oriente, il che non vuol dire che sia rimasto tale nel corso del tempo. Due condizioni esterne ne determinano il passaggio a fasi nelle quali anche l’uso della violenza assume caratteri indiscriminati, terroristici. La prima si verifica nelle situazioni eccezionali di cui si diceva, quando le mafie sentono minacciata la propria esistenza, quando vengono meno i rapporti di condivisione con il potere, quando i tradizionali referenti politici vengono meno ai doveri di copertura e protezione, quando il ruolo di prestatori di servizi criminali non è ritenuto più utile.
La seconda condizione, in qualche modo collegata alla prima, è il passaggio dal controllo dell’economia legata al territorio, anch’esso segnato da contrasti, risolti rapidamente con quote di violenza ben controllate, alla gestione di traffici (per tutti quello della cocaina), di dimensione globale e con profitti dell’ordine di centinaia di miliardi di dollari all’anno. In questi casi, senza che le regole tradizionali possano costituire remora alcuna, anche le mafie non esitano a passare a forme di violenza estrema, di tipo terroristico, le cui vittime non sono più o soltanto i “nemici” esterni ed interni, ma la popolazione civile, i beni pubblici, i trasporti.
La prima delle due condizioni, almeno per quanto riguarda il nostro paese, va contestualizzata nel clima geopolitico che ha caratterizzato il secondo dopoguerra sino alla caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. L’Italia si trovava al limite tra Europa dell’Est sotto il controllo politico e militare dell’URSS e l’Europa dell’Ovest, sotto l’ombrello della Nato. Aveva inoltre il partito comunista, più forte, numeroso e meglio organizzato tra tutti gli omologhi dell’Europa occidentale. Da qui l’attenzione cui essa era rigidamente sottoposta per il pericolo di rafforzamento del PCI e per un suo possibile ingresso nell’area di governo. La prima strage politico-mafiosa si registra a Portella della Ginestra il 1° maggio del 1947 e da allora Cosa Nostra assume il ruolo di cane da guardia contro i pericoli della lotta di classe, del progressivo avanzamento elettorale del PCI. Paradigmatica è l’espressione usata dall’agente della CIA Victor Marchetti nell’immediato dopoguerra: “La mafia, per il suo carattere anticomunista è uno degli elementi che la CIA usa per controllare l’Italia” (l’altro elemento era l’estrema destra). Non si poteva essere più chiari di così.
Da qui, senza soluzione di continuità, l’adesione ideologica e la collaborazione operativa delle mafie italiane con i progetti eversivi, con i tentativi di golpe che hanno caratterizzato la storia politica dal 1969 (12 dicembre strage di Piazza Fontana a Milano) sino agli anni 1992-93 ( stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992 e gli attentati di Firenze, Milano e Roma del 1993). In mezzo, il sequestro (16 marzo 1978) e l’omicidio (9 maggio successivo) di Aldo Moro e la strage della Stazione di Bologna del 2 agosto del 1980. Dai risultati delle indagini giudiziarie e dalle ricerche delle Commissioni parlamentari, si può dare per certo che le mafie italiane furono per così dire “arruolate” per il compimento di attentati, depistaggi, omicidi di testimoni scomodi, appoggio logistico (fornitura e utilizzo di armi ed esplosivi). Esse non furono estranee ai ricorrenti tentativi di golpe, tendenti a sovvertimenti della guida politica del paese, o alla realizzazione di progetti separatisti per dividere il paese e realizzare, finalmente, l’obiettivo di assumere il governo del Mezzogiorno d’Italia, di “farsi Stato”.
In tutto questo, ruoli fondamentali erano ricoperti da potentissimi poteri occulti, quali la Massoneria ed in particolare la Loggia P2 di Licio Gelli, servizi segreti nazionali ed internazionali (statunitensi ed inglesi) imprenditori e politici anche di primissimo piano. In questo contesto le mafie accettarono di partecipare ad azioni terroristiche che provocarono oltre un centinaio di morti, in qualche modo snaturando la propria autonomia dal gioco politico, anzi entrandovi come protagonisti, in vista di risultati concreti, tangibili. I risultati arrivarono e se ne vedono ancora gli effetti.