Conservare il patrimonio nazionale di bellezza, di arte, di cultura è dovere di tutti. Pare un ragionamento sensato, colmo di logica e valorizzazione di ciò che siamo, quasi una convenzione. Sono parole belle, che disegnano subito il sorriso a tutti i personaggetti che la pronunciano di fronte a microfoni e telecamere, gli stessi che nelle aule del nostro parlamento si accalcano, sgomitano, si logorano corpo e anima per sostenere il nostro presente, con valori del passato in un oggi fatto di tecnologica che migliorerà il nostro futuro. Il mio timore, ora, è che da qui ne possa nascere una discussione sterile e ricca di malintesi. Il rischio effettivamente esiste.
Meglio discutere di altro. Suppongo che sia meglio lasciare queste parole in un bar che puzza di bianchetti bevuti di fretta, consumati in una domenica pomeriggio dove il sole cuoce l'asfalto e non si può far altro che cercare frescura e rinfresco tra le mura spesse, quelle di un tempo, dove il mattone pieno trattiene l'umidità,per poi sputarla all'aria che si appesantisce ancor di più allo sbuffo di qualche nazionale, quelle senza filtro, le stesse che lascian gialle le dita e puzzo di catrame sulla camicia buona, quella stirata con cura per il giorno di festa.
Le parole da bar venivan fuori da bocche contadine in un dialetto masticato, rotolato tra gola e lingua, inciampato in una cadenza che sdrucciola sulle "erre" e dove le "effe", spesso, diventavan "pi". Mario stava a guardare suo padre, si sosteneva alla ghiacciaia dei gelati che, di tanto in tanto, mollava uno scossone alla ripartenza del motore che lo faceva vibrare tutto, ne seguiva un sibilo e la fastidiosa ventola si rimetteva in un cigolio di marcia tanto fastidioso che dopo un po' non ci si faceva nemmeno caso, anzi diveniva un sottofondo, un mormorio che si aggiungeva alle parole perse nell'ambiente rimbombante. Faceva caldo, la pala al soffitto girava in senso orario, portando un tiepido refrigerio alle fronti rugose di chi si animava tanto con un settebello in mano che proprio non voleva saperne di venir a punto.
Si rivolse a chi di dovere, da sotto i baffi bianchi come il natale, le labbra incastonate tra due guance paffute scandirono, con tono gentile, nel rauco di una voce baritonale: "Lui si prende un ghiacciolo... che così si rinfresca!". Mario sorrise compiaciuto. Gli altri più in giù, - quasi sul fondo della sala -, marcavano il re [1], accennando al barista che il liquido nella caraffa era sotto il livello di guardia. La pala del soffitto fece ancora un giro, spostando due batuffoli di polvere che roteavano per venir fuori dal motore della ghiacciaia. Mario era ancora lì, appoggiato. Levò la mano dalla parte superiore rivestita da una lastra di pellicola che simulava, - in modo pacchiano -, le venature del legno; il sostegno gli mancò per un attimo, dovette fare due minuscoli movimenti all'indietro coi piedi, ritrovò l'equilibrio con una sgraziata delicatezza di un danzatore obeso. Aprí il coperchio da destra verso sinistra, che fece come disegno una "V" scivolando su se stesso, ci infilò dentro prima il braccio paffuto e poi tutta la testa fino a respirare l'odore del gelo. La pancia strusciava sull'esterno nello sforzo di raggiungere il fondo in quella confusione buia di colori sostenuti da uno stecco legnoso. Il sorteggio fu proficuo: ne tirò su uno di color blu con in viso la tonda soddisfazione simile a quella di chi vince il torneo di bocce. Si ricompose dopo l'evidente sforzo. Quelli blu erano i più rari.
Lo scartò con tanta impazienza tanto da farsi scivolare tra le dita la carta plastificata dell'involucro che, inevitabilmente, trovò presto il pavimento dal suo lato appiccicoso. In lontananza correvano nubi nere come la pece. "Finalmente qualcosa di fresco", fu il pensiero nell'addentarlo. Scambiò uno sguardo con suo padre che lo ricambiò con un gesto delle mani, segno che quella carta in terra andava portata al cestino alle sue spalle. A un certo punto si sollevò un gran baccano al tavolo. I toni si alzarono sia per volume che intensità. L'aria carica di umidità cambiò odore. Qualcuno infuocò una nazionale. Qualcun altro si rivolse al grande capo dei cieli e della terra stropicciandosi il volto con le mani. Il blu, che prima era solido, ora si lasciava andare a un gocciolio costante sulla mano chiusa a pugno che, con impassibile determinazione, stringeva lo stecco.
Si avvicinò per capire cosa stesse succedendo, quasi con spavento, intimidito da quegli uomini, tutti diversi, nel corpo e nell'anima, ma tutti con mani grandi come badili. Mani abbronzate come la terra e con dei calli enormi, rugosi che parevano i nodi delle piante, quelle dalle foglie larghe che giocano con la terra e, se la natura vuole, danno il tartufo. Quanto successe non si può descrivere per intero, ma c'è chi nell'impeto si alzava in piedi lasciando che la sedia si lanciasse all'indietro schiantandosi al muro per non cadere al pavimento, chi batteva il palmo della mano sul legno della tavola per fare e trovare giustizia a ciò che diceva, chi tentava di introdursi nei discorsi altrui mozzando le frasi in un balbettio che segnava il tempo come una trombetta in un concerto di caos.
Certo c'era, perché sicuramente c'era, chi aveva abusato del "piciu rus" in caraffa, che poi non era altro che un miscuglio di liquidi alcolici e ghiaccio, un intruglio preparato per godere di quel poco di alcol che fa subito compagnia, dissipato dall'abbondante aggiunta di acqua per fungere da dissetante estivo. A quel tempo il Gatorade non c'era, il "piciu rus" ne era degno sostituto. Fu sul finire del ghiacciolo che Mario capì che il padre, - un vero signore -, a breve si sarebbe alzato con fare impetuoso, impettito come un tacchino a dire la sua, iniziando la frase con un: "hi, pacciamo poco i penomeni". E così fu. Si alzò e il suo gesto si portò appresso tutto il contorno che era la sua mole. Con fare autorevole, senza dire una parola, pretese il silenzio.
Le pale, che ora tagliavano l'aria in senso antiorario, intonarono uno stridulo accenno di lamento. Due tremori, e la cinghia comunicò alla ventola che era giunto il momento di cigolare, la ghiacciaia ripartì e con essa il moto perpetuo di sottofondo. Poi parlò. Tutti ascoltarono. Nessuno disse niente. La ricetta del carpione, di quello buono, era stata svelata. Mario voltò le spalle. Lo stecco sapeva ormai di saliva e di blu. L'infinito patrimonio svelato quel giorno fu come un seme messo a dimora. Lui questo ancora non poteva saperlo, ma un giorno lo avrebbe scoperto. Avrebbe voluto scriverlo, avrebbe dovuto almeno parlarne. Forse la prossima volta. Il cielo tuonò e le prime gocce si schiantarono al suolo. L'uomo dalle guance paffute si portò verso l'uscita per capire meglio. Gli occhi al cielo. Da sotto i baffi fuggirono parole grevi come la realtà: "Giuda Bastard, piove. Governo ladro!"
[1] "Marchè 'l re" è un gioco di carte piemontese e il suo significato è "Segnare (marcare) il re".