Il giovane Caldwell cercò disperatamente il cellulare nelle tasche del suo eskimo senza riuscire a trovarlo. Le sue mani cominciarono a fremere a causa dell’ansia e del terrore. Sentiva una leggera infiammazione alla laringe per via dello sforzo che le urla di richiamo avevano richiesto. Doveva fare in fretta, ma più ci pensava e meno i suoi movimenti risultavano fluidi, e meno il flusso dei pensieri rimaneva in sintonia con i gesti che compiva. Decise di dirigersi verso il fuoristrada. Sicuramente vi avrebbe trovato il cellulare che accidentalmente doveva essergli caduto mentre scendeva. Ma un attimo prima di muoversi, come istintivamente, si toccò la tasca dei jeans, di dietro, e sentì un bozzo. Prese il cellulare in mano cercando di controllare i tremiti, facendo scorrere la rubrica riuscì ad arrivare fino al numero dello sceriffo Miller, dopodiché premette Invio e il numero si compose. La linea era libera.
«Sceriffo Miller, chi parla?».
«Sceriffo Miller, sono Robert, Robert Caldwell. Deve venire immediatamente, è successa una disgrazia».
«Robert, calmati» intimò lo sceriffo. «Dimmi che succede e soprattutto dove ti trovi».
«Sceriffo, io sono nella contea di D., a pochi metri dal faro Daisy, sul lago salato. Jeff si è buttato. Io, non so che fare, non è ancora riemerso e sono già parecchi minuti».
«Robert, stiamo arrivando. Cerca solo di stare calmo, va bene? Stiamo arrivando».
Appena chiusa la comunicazione, il giovane Caldwell lasciò cadere il cellulare a terra e si avvicinò al margine del lago. Raccolse una torcia che Jeff aveva abbandonato prima di tuffarsi e dopo averla accesa puntò il cono di luce verso l’oscurità. Le sue gambe cedettero. In preda alla disperazione cominciò a piangere senza controllo. Il faro Daisy non era più in grado di funzionare da diversi anni. Il piccolo promontorio su cui era stato costruito veniva frequentemente recintato per via delle indagini. Periodicamente, infatti, qualcuno si suicidava o veniva assassinato. Eppure capitava spesso che il giovane Caldwell, la notte, andasse in quel posto con Jeff, per passeggiare o fare il bagno, o semplicemente guardare il faro. In sua compagnia non aveva mai provato paura. Ora, invece, ritrovatosi solo, a quell’ora tarda, al buio, quel posto gli pareva quantomeno lugubre e non era certo difficile capire perché la gente lo scegliesse per compierci dei peccati. Un lungo brivido gli percorse la schiena senza abbandonarlo fino all’arrivo dello sceriffo Miller e dei suoi uomini.
Alcune ore dopo, lo sceriffo si avvicinò al giovane Caldwell, a cui era stata fornita una coperta, e accendendosi una sigaretta fece alcune domande di rito. Appena si trattava di parlare, il giovane Caldwell non resisteva, i suoi nervi cedevano e si lasciava andare a lunghi ininterrotti pianti, nonostante le parole di conforto con cui lo sceriffo cercava di tenerlo su. «Dai Robert, stai calmo e racconta» diceva.
«So come vanno a finire queste storie» ripeteva il giovane Caldwell.
«Si, Robert è così, non facciamoci illusioni. Ma ora calmati e raccontami come sono andate le cose».
Mi sveglio con un gran cerchio nella testa. Non ricordo nulla delle ultime due settimane. Cerco di fare uno sforzo. Ho trent’anni, di questo sono sicuro. L’ultima immagine stampata nel mio cervello riguarda il concerto che ho tenuto a C. poche ore prima che questo buio arrivasse e che il dolore si facesse lancinante. È stato un vero successo. Entusiasmante. Il mio manager era addirittura eccitato. È un brav’uomo. Nonostante le apparenze, anche per me, emergere, non è stato facile. Io rimango della convinzione che il merito dei risultati raggiunti nel modo esatto in cui avevamo stabilito, sia suo, in larga misura. Io avevo delle priorità, le mie necessità erano solo personali, e lui è stato in gamba. Non so se un altro al suo posto avrebbe saputo fare di meglio.
Ora che sono disteso sul letto della mia camera, nel mio appartamento che si trova al centro di C., mi sento al sicuro. Aspetto il benessere, cerchio alla testa permettendo. Penso che tra qualche minuto mi alzerò e prenderò delle aspirine, così starò meglio. Mi piacerebbe sapere cosa è successo in queste due settimane. Non è roba da poco avere un vuoto simile nella mente, un vuoto totale. Devo sforzarmi un pochino. Dopo il concerto ho parlato con una telecamera che mi riprendeva, ho mostrato la mia camicia sudata. Eccola lì, la mia camicia, sulla spalliera del divano; la camicia che mi ha regalato il mio amico Robert. Ho fatto la doccia e sono uscito insieme al gruppo per cercare un posto tranquillo in cui poter cenare. Roger aveva un altro impegno e non è venuto con noi. Abbiamo mangiato tanto, poi qualcuno ha proposto di prenderci una bella sbronza e abbiamo cominciato a bere. Poi non ricordo più nulla.
Questo è uno di quei momenti in cui gli impegni e i progetti che ho in programma nella mia agenda cominciano a vagare disordinatamente dentro la testa nel tentativo di creare confusione. Devo sentire alcune persone che non sento da parecchio tempo, ho preso appunti circa un’idea avuta prima del concerto, un’idea che devo assolutamente approfondire e trasformare in qualcosa di concreto, tutta roba che ho lasciato in disparte a causa degli impegni di lavoro. Quel concerto ha catturato gran parte delle mie energie e delle mie attenzioni. Ma ora sono disteso sul letto e non riesco a muovermi. Mi dico che se aspetterò dieci minuti, un’ora, una mattinata, una giornata, non sarà così grave. Il pensiero è quello di spegnere l’interruttore. Potrei lasciarmi andare, chiudere gli occhi e dormire e cercare di sognare perché ormai è da tanto che non lo faccio. Io non esisto. Io non sono niente. Non sono mai nato. Nessuno mi ha mai conosciuto.
Che sensazione rilassante. Che piacevole ambiguità. Vorrei che il mio futuro fosse fatto di acqua. Che si perdesse dentro le profondità. Che la leggerezza dell’aldilà mi aiutasse per un solo secondo. Vorrei essere niente. Nessuno. Il telefono squilla liquefacendo queste sensazioni a cui mi sto arrendendo. Perché decido di rispondere? Alzare la cornetta significherà la fine del mio riposo. Il ritorno alle misure pesanti, alle consistenze, ai muri impossibili da oltrepassare, le soverchianti sensazioni dei tessuti che mi coprono impedendomi di compiere qualunque tipo di movimento.
«Jeff, sono Robert. Ti ho chiamato per sapere con esattezza l’orario del tuo volo. Vengo a prenderti all’aeroporto, fratello, sai che non devi preoccuparti di niente, perché c’è il tuo Robert che si occupa di tutto. Chiamami appena senti il messaggio».
Non ricordo di aver inserito la segreteria. Mi alzo per andare a controllare e noto che ci sono diversi messaggi. Faccio un ampio giro nell’appartamento. Le mie gambe mi sostengono a malapena. Scosto una tendina e guardo di fuori. I colori sono molto particolari quest’oggi e non riesco a capire se sia mattino o pomeriggio. La luce è grigiastra e crea lunghe ombre sul muro dell’edificio di fronte. Forse ha piovuto da poco. Sul tavolo della mia camera c’è un biglietto aereo. Controllo. Una vera sorpresa. Devo tornare a casa. Ho un volo alle otto di questa sera, così non potrò proprio rilassarmi, lasciarmi andare. Devo preparare il bagaglio e chiamare un taxi. Se non prendo l’aereo, Robert farà un viaggio a vuoto. Oltretutto, se in precedenza ho deciso di tornare a casa, è perché qualche impegno mi aspetta. Se me ne resto qua a vegetare non avrò la possibilità di scoprire cosa vado a fare a casa proprio nel bel mezzo dell’inverno. E magari rischio di non riuscire a lavorare ai nuovi progetti.
Appena salito sul taxi comincio ad avere delle visioni. Sono brandelli di immagini che appartengano alle due settimane appena passate. Se solo potessi ricordare qualche indizio che mi permettesse di ricostruire una scena, un bagliore dentro questo buio. Poi in aereo mi viene in mente un sogno che sono sicuro di avere fatto durante queste settimane, ma non capisco perché solo ora ritorna a galla dal mio subcosciente. Ora che sono su questo aereo. Nel sogno vagavamo nella contea di D. insieme ad alcuni amici del liceo. Avevamo deciso di sbronzarci per tutta la sera e una volta cominciato a bere non abbiamo più smesso. Per quasi due settimane. Nel sogno avevo una percezione del tempo completamente diversa rispetto alla realtà. Eravamo tutti abbastanza consapevoli della gravità dello scorrere del tempo. Non so perché avessimo deciso di dirigerci verso il cimitero monumentale della contea, sta di fatto che appena abbiamo raggiunto le mura (era da poco passata mezzanotte) le abbiamo scavalcate, poi, una volta entrati, ci siamo dispersi.
Non ricordo esattamente chi avesse deciso di fare una cosa simile e perché. E se devo essere sincero, l’unico brivido degno di nota, dopo avere scavalcato, è stato in fondo lo sconcerto che ho provato quando siamo arrivati di fronte alla tomba di mio padre. Quella scena di me in ginocchio che cerco di toccare la scritta in rilievo sul marmo ghiacciato, l’iniziale del suo nome, quella T svolazzante, mentre alcune lacrime mi rigano il viso, è stata, per dirla tutta, molto reale. Mentre ciò che è successo dopo non riesco proprio ad interpretarlo. Perché quando ho asciugato il viso e ho riaperto gli occhi per bene, c’era un gran bel casino nei pressi della tomba. Perché il corpo era stato riesumato. Proprio così. La bara di legno era stata scoperchiata, il corpo di mio padre stava di fronte a me. Mio padre aveva ventisette anni quando è morto in seguito a un’overdose. Aveva inciso non so quanti brani del suo ultimo album e, per quanto piccolo fossi, ricordo il suo viso tirato ma felice, perché ogni volta che sentiva di riuscire a terminare un nuovo progetto, poteva dire di essere ancora vivo. Questa sorta di felicità che arriva quando un lavoro sta volgendo al termine nella maniera migliore è uno degli elementi che abbiamo sempre avuto in comune.
Così, ora è davanti a me, o meglio il suo corpo è davanti a me, e la bara è un involucro freddo e maleodorante. E il viso ormai scarnificato, con le orbite ben visibili, sono solo ossa inutili, perché private della persona che un tempo contenevano, insomma non valgono più nulla. Sono solo ossa, lì, davanti a me che non riesco a raccapezzarmi del fatto che abbiamo disseppellito un morto. Quanto potevo immaginare circa il fatto di aprire una tomba sigillata da tanto tempo non è paragonabile a ciò che si prova quando una cosa del genere la si fa veramente. Ma nel sogno, il tempo che passa continua a rimanere un enorme e pesante fardello, anche se non so in che modo questo possa incidere sulla bravata che abbiamo appena combinato. Infatti, non solo non tocco niente, perché non provo niente, ma l’unico pensiero che mi sovviene, in quel preciso momento, è un pensiero vetusto: quello è mio padre, eppure, ora, lui è più piccolo di me. Di ben tre anni.
È un sogno stupido, ci ripenso mentre sono in aereo e mentre scendo le scalette, un sogno stupido come tanti sogni che si fanno, che di certe cose non se ne ha il controllo, e per quanto dicano che è la nostra parte più nascosta a riportarle a galla, anche attraverso l’utilizzo di strumenti come questo, per me il tutto non è altro che una falsa rappresentazione della realtà, una rappresentazione come tante altre, e io non provo nessun desiderio triviale che la giustifichi, né a livello subcosciente, né tanto meno a livello razionale. Ne sono certo mentre prendo il mio bagaglio e mi dirigo verso la hall dell’aeroporto dove Robert mi accoglie con una faccia che non mi piace per niente.
«Dobbiamo andare a casa tua. Lo sceriffo Miller ha bisogno di parlarti» mi dice. «Cosa è successo?» chiedo, cercando di controllare quel poco di ansia che segue al passaggio da uno stato di non esistenza, ai problemi urgenti della mia vita, dalla possibilità di un riposo indefinito, a uno stress continuato, indifferibile, da un viaggio caratterizzato dal ricordo del sogno, a quel chi va là di Robert che mi avvisa del fatto che lo sceriffo Miller è a casa e mi aspetta. Così quando arriviamo, faccio appena in tempo a poggiare la valigia. Nell’ampio salone della casa dove sono nato, rimasta quasi senza custodia dopo la morte di mio padre e la partenza di mia madre, che ha deciso di rifarsi una sua vita altrove, lo sceriffo si alza e mi stringe forte la mano. Robert prepara da bere, ma io faccio un gesto con la mano per dire che sono a posto.
Robert conosce già la storia perché ora beve nervoso intuendo che la sentirà per una seconda volta. Lo sceriffo Miller ha una strana espressione sul viso come se non sapesse quali parole utilizzare per comunicarmi la notizia. Io non chiedo niente, non faccio domande, né cerco di mettergli fretta. So solo che da un momento all’altro farà il nome di mia madre e la preoccupazione sarà quella di preparare un altro funerale. Ed invece sono io a essermi sbagliato e a rimanere spiazzato dal racconto dello sceriffo Miller. Le parole che utilizza sono quelle appropriate, ma il racconto è talmente paradossale che quasi mi viene da sorridere, se non fosse per il fatto che devo a tutti i costi cercare di capire che cosa mi sta dicendo.
La tomba di mio padre è stata profanata da alcuni teppisti. Non è la prima volta che succede. Si è verificato in diverse contee tanto che si ha il sospetto che si tratti del solito gruppo di piccoli vandali. Lo sceriffo sta solo aspettando che commettano il primo errore, poi cadranno nella sua trappola e allora se la vedranno brutta. Lo sceriffo fa una lista delle pratiche burocratiche che devo sbrigare prima possibile e dice che devo anche recarmi al distretto per alcuni documenti da firmare. Ma ho tempo. Almeno un paio di giorni. Mi stringe la mano e prende congedo. Robert ha un impegno da cui cercherà di svicolare prima possibile per poi tornare da me, e dopo avermi preparato la cena, mi accompagnerà al lago salato, dove potremo fumare all’aperto e fissare il faro Daisy nell’oscurità del promontorio per capire se ancora ci fa paura come quando eravamo piccoli.
Beh, potete immaginare come è andata a finire la storia. Stavamo passeggiando tranquillamente e Robert mi chiedeva della carriera e parlava delle volte che mi aveva visto in Tv o che aveva sentito notizie sul mio conto, orgoglioso del fatto che potesse affermare senza paura di essere smentito, che io ero suo amico. Mentre parlava, ho ripensato al salone della mia casa, al pianoforte a coda dove mio padre passava ore a comporre i suoi brani che utilizzavano parole minacciose per alimentare false speranze. Ho toccato il pianoforte con un dito e sono rimasto sorpreso nell’accorgermi che non vi era neanche un filo di polvere lungo tutta la lucente superficie. Poi ho detto a Robert che volevo fare un bagno e che mi sarei gettato nel lago. Robert ha riso pensando che scherzassi, ma sono riuscito a cogliere una smorfia preoccupata sul suo viso nel momento in cui ho lasciato cadere la torcia e mi sono sfilato le scarpe. Mi sono tuffato così, con i vestiti e tutto il resto, senza sapere che cosa volessi esattamente ottenere. E appena sono andato di sotto, ho ritrovato quella sensazione di leggerezza che stavo per raggiungere nel letto del mio appartamento nel centro di C., una sensazione rilassante. Una piacevole ambiguità.
Vorrei che il mio futuro fosse fatto di acqua. Che si perdesse dentro le profondità. Che la leggerezza dell’aldilà mi aiutasse per un solo secondo. Vorrei essere niente. Essere nessuno. Non sono riuscito a cogliere l’attimo esatto in cui questa leggerezza mi ha pervaso completamente, e non potrei certo giurare che capissi cosa significava prolungare quella piacevole ambiguità. Penso di essere sicuro di non averlo fatto apposta. Questo almeno, sono in grado di azzardare, potrei giurarlo. Ma ora non importa. Hanno cercato il mio corpo nel posto sbagliato per troppo tempo. Non è colpa loro. Ma anche questo non importa. Perché ora, in un limbo incomprensibile da cui posso raccontarvi la storia della mia fine, sto per spiccare il volo, e rivedere dopo tanto tempo il viso di mio padre così come lo ricordavo. Il mio ultimo viaggio. Il viaggio verso mio padre Tim.