L’ho sentito fin troppo bene, un destro praticamente perfetto, arrivatomi sotto il mento.
Il mio opponente ha piedi veloci, è basso e l’ho decisamente sottovalutato; forse anche per la sua giovane età.
Al momento mi trovo al tappeto, l’arbitro conta e io riesco solo a vedere il soffitto, il tutto mentre un dolore lancinante mi martella nella testa e in bocca sento il sapore ferroso del sangue mischiarsi alla saliva intorno al paradenti. Qualcuno dall’angolo grida il mio nome.
«Luca, alzati!».
Volto piano lo sguardo verso Carlo, mio padre e mio allenatore, non avrei mai pensato che mi vedesse in queste condizioni, anche se sicuramente come sport non è tra i più tranquilli e lui, pugile per quasi quarant’anni, lo sa bene. I nostri occhi si incrociano in uno scambio di cicatrici, le sue vecchie e argentee e le mie decisamente più fresche e rosee.
Un brivido mi percuote il corpo mentre i suoi, le sue due nuvole grigio-azzurre in mezzo al volto mi incitano ad alzarmi con la forza di un temporale in agosto.
Il ragazzo è già lì che esulta e mi guarda con quel sorriso sbilenco dato dalla giovinezza, quella che ti fa sentire invincibile, come se con un solo pugno ben dato tu potessi avere tutto il mondo nel palmo della tua mano e stringerlo, fino a sbriciolarlo, fino a farci ciò che vuoi. Senza rendermene conto sento il mio braccio muoversi e spostarsi sul mio lato, spinge, le gambe collaborano, adesso mi ritrovo in piedi, viene chiamato un time-out e barcollo verso l’angolo. Il mio corpo si affloscia sullo sgabello mentre Carlo mi butta dell’acqua in faccia e non mi parla. Lo posso decisamente sempre ricordare con questi suoi silenzi assoluti nella vita, come se la sua figura fosse avvolta da una nuvola, impossibile da non percepire e non comprendere anche nel più assordante silenzio. Un uomo decisamente mite e alle volte forse burbero, ma non posso dire che non sappia essere giusto, ricordo il suono della sua voce nei più importanti insegnamenti e anche nelle barzellette più squallide, quando vuole proprio procurarsi uno schiaffo amorevole dalla moglie. Eppure ora le sue labbra si muovono. «Ricordati perché lo fai» mi dice. Con quella sua risoluzione e sicurezza che solo lui sa darmi, quella solidità sulla quale sento di potermi appoggiare.
E allora mi appoggio al ring e mi lascio andare, lascio che il mio corpo e la mia mente si ricordino il motivo per cui anche oggi sono qui.
Dalla memoria due occhi verdi di bambina mi spuntano davanti, contornati da una cascata di capelli castani. La piccola mi sorride mentre mi prende la mano e mi guida verso il divano, dentro sento già che mi chiederà di leggerle l’ennesima storia, talmente la sua ossessione per le pagine e il profumo della carta, tanto simile a me in questo. Ci sediamo e lei mi si accoccola addosso carezzando le mie mani forti e piene di lividi mentre tengo in equilibrio il libro come fosse cristallo, mentre lei con la sua morbidezza e il suo amore riesce a far diventare delicato come vetro anche me. Seguo le immagini e la memoria cambia. La vedo ora in piedi su un piccolo sgabello, un grembiulino in vita mentre gira piano il sugo nella pentola e mi sorride con tutto il suo corpo e con quei suoi grandi occhi verdi. Risento nel naso il profumo delle nostre infinite ricette.
Nel mio silenzio la campanella suona e il combattimento riprende la sua lenta e letale danza. Come due amanti ci avviciniamo e allontaniamo, toccandoci e scontrandoci, in un valzer dove tutti gli occhi sono su di noi.
Avanti.
Sinistro.
Indietro.
Destro.
Para.
Sinistro.
Avanti.
Sono al tappeto.
Di soprassalto mi sveglio. La suoneria del mio cellulare suona dal comodino, più intrusiva della campanella che sentivo in quello che ora mi accorgo essere stato solo un sogno. Mi giro nel buio della mia camera e mi infilo le pantofole. Piano scendo le scale mentre penso agli impegni della giornata. «Dovrei avere quel meeting… si vabbè». In maniera totalmente automatica premo il tasto di accensione della macchina del caffè e faccio scorrere un espresso nella tazzina. Soffiando piano su essa osservo il panorama fuori dalla finestra, un cielo azzurro come i suoi occhi mi sorride in maniera beffarda. Gli alberi verdi vengono leggermente scossi da una folata di vento e mi perdo nel colore, nella malinconia che esso mi porta. Mi volto e porgo lo sguardo verso le profondità della cucina, come se quelle due pozze di verde fossero ancora lì, su uno sgabello a guardarmi sorridenti, ma non le trovo. Le ultime parole del sogno mi tornano in mente, prepotenti. «Luca, ora alzati».
Subito penso a quegli occhioni verdi, lucidi e arrabbiati, che mi guardano estranei, infliggendomi la cicatrice più profonda di tutte.
Alla fine, Carlo, non mi sono alzato quando avrei davvero dovuto, non ne ho avuto la forza, ora mi rimane solo l’azzurro del cielo a ricordarmi di te e gli alberi in primavera, che sbocciano orgogliosi e si lasciano accarezzare dal vento gentile ma che non si spezzano durante la tempesta invernale a ricordarmi di lei.