Nati e cresciuti intorno all'emblematica figura di Christian Vander - batterista, cantante, compositore e leader indiscusso del gruppo - i Magma non hanno soltanto il pregio di aver ampliato le frontiere del rock, come ha scritto qualcuno, ma quello di averle dilatate oltre ogni verosimile aspettativa, a tal punto che di rock, nella loro musica, altro non rimane che parte della strumentazione utilizzata tra studio e palco e l'oramai vetusta etichetta di dominatori della scena progressive francese.
Il panorama musicale transalpino, infatti, se pur ricco di nomi importanti (Atoll, Pulsar, Ange, Tai Phong), rimane essenzialmente legato a modelli e cliché di derivazione inglese e poco ha a che spartire con un ensemble che trova i suoi punti di riferimento nelle composizioni di Igor Stravinsky e Béla Bartók o nel free jazz di John Coltrane e Grachan Moncur III, ma che finisce comunque per non assomigliare a niente di tutto ciò che sia stato concepito durante gli ultimi diecimila anni di storia della musica. Senza immediati riferimenti stilistici, dunque, le composizioni dei Magma sono spesso ossessive, totalmente prive di melodie convenzionali, affidate a continui tempi dispari e poliritmie stranianti. A sovrastare queste complicatissime architetture sonore ci sono gli interminabili vocalizzi, i cori martellanti, la voce a tratti lirica a tratti folle di Klaus Blasquize e quella del tutto schizoide di Vander. E a render ancor più unica e priva di categorie la musica della band francese ci sono i testi scritti da quest'ultimo in kobaïano, la lingua inventata dal leader dei Magma – e non quattro parole messe a casaccio, sia chiaro, ma una lingua vera e propria con tanto di sintassi e regole grammaticali – per narrare le vicende di un'immaginaria saga fantascientifica tra la Terra e il pianeta Kobaïa.
Il disco in questione è stato spesso liquidato come lavoro di transizione, che poco o nulla aggiunge tanto al repertorio dell'esordio discografico quanto agli sviluppi dell'album successivo, eppure 1001° Centigrades riesce a differenziarsi tanto da Magma (1970) che da Mekanïk Destruktïw Kommandöh (1973), pur mantenendo intatta l'inconfondibile impronta della band. Un LP di passaggio, quindi, ma nella migliore delle accezioni possibili: legato a certo free form d'inizio carriera, è tuttavia un disco più ostico del suo predecessore, più complesso, gradatamente più vicino ai lavori successivi, di cui possiede già i toni foschi e minacciosi.
In apertura troviamo Rïah Sahïltaahk, una suite di oltre 21 minuti nella quale si passa con incredibile e folle disinvoltura da un ritmo all'altro, da un tempo dispari al seguente, fra stacchi improvvisi, cromatismi, fulminanti passaggi di basso, improvvisazione e sperimentazione, cori, sax, tromba, clarinetto, momenti di apparente stasi e altri di furia espressiva, sino al bellissimo finale inaspettatamente affidato alle malinconiche note di un pianoforte. "Iss" Lanseï Doïa è un brano molto corale, meno teso e complicato del precedente, un pezzo nel quale appare più evidente la matrice jazz del gruppo ma che dalla parte centrale in poi non manca tuttavia di assumere dei toni minacciosi e ostili, complici anche l'enfasi del recitato e i lugubri gemiti che fanno da sottofondo ai minuti finali. Ki Ïahl Ö Lïahk si caratterizza invece per l'orchestrazione dei fiati, le bellissime trame del basso di Francis Moze – d'altronde in grande spolvero lungo tutto l'album – e le improvvisazioni pianistiche di François Cahen le quali donano al finale di quest'album un'aria un po' meno tetra e soffocante, un'atmosfera forse più sfumata che nei lavori successivi scomparirà del tutto.
Dove ascoltarlo? Suggerire il pianeta Kobaïa sarebbe forse troppo semplice per chi scrive e troppo complicato per chi legge. Ascoltatelo dunque dove più vi aggrada, ma ascoltatelo!