The Brutalist di Brady Corbet, già Leone d’argento a Venezia 2024 per la migliore regia, (quattro premi al BAFTA di Londra) è in corsa per gli Oscar 2025 con dieci nomination.
Un film empatico, di pura magia, in una versione 70mm VistaVision e 215 minuti di durata (che ha richiesto dieci anni di lavorazione) che vola alto: l’architettura post bellica, l’Olocausto, il potere, l’ambizione umana e la rivendicazione politica. Protagonista un architetto ungherese di origini ebraiche, László Tóth (Adrien Brody) un "brutalista" (da cui il titolo e l’amore per la corrente artistica), che arriva nel 1947 negli Stati Uniti, (mentre sua moglie e la nipote restano a Budapest), lasciandosi alle spalle gli orrori della guerra e dopo essersi affermato in Europa negli anni Trenta come uno dei nomi di punta del Bauhaus (la celebre scuola fondata nel 1919 a Weimar da Walter Gropius con l’obiettivo di fondere arte, artigianato e tecnologia in un design funzionale e moderno).
Negli USA, si ricongiunge al cugino Attila in Pennsylvania, ma i loro contrasti lo lasciano senza prospettive, László accetta lavori umili, patisce la fame e cade vittima di sostanze stupefacenti. Nel momento in cui tutto sembra perduto, un milionario della Pennsylvania, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), gli offre un’opportunità professionale, progettare su una collina solitaria appena fuori Philadelphia, un centro polifunzionale (una biblioteca pubblica, palestra e cappella con l'altare in marmo di Carrara) pensato per unire le persone e favorire una comunità.
Una gigantesca costruzione dedicata alla madre dell’imprenditore, con fessure che rispondono a criteri di modulazione dello spazio e della luce solare. La visione di László, di usare il marmo di Carrara e persino la luce solare è quella di imprimere speranza su quelle superfici attraverso uno stile di rinascita dopo la guerra.
Sebbene all’allievo visionario del Bauhaus venga data la possibilità di manifestare il suo talento attraverso il Brutalismo (la corrente nata negli anni Cinquanta in Inghilterra, caratterizzata dal cemento a vista, béton brut, dominata da nomi celebri dell’architettura come Le Corbusier), il rapporto fra László (Adrien Brody) e il magnate è caratterizzato da momenti di alta tensione, che riaffiorano a più riprese durante il film.
A partire dalle battute di Van Buren rivolgendosi all’architetto che parla come “un lustrascarpe”, del figlio Harry (Joe Alwyn), che evidenzia sarcasticamente il gap sociale tra la sua famiglia e quella di Tóth (“Noi la tolleriamo"), le pretese sessuali sulla nipote, Zsófia (Raffey Cassidy). Momenti cupi con una forza suggestiva delle immagini, in cui prevale il senso di potere dei Van Buren sui loro dipendenti e subordinati. Si presume che il regista per il personaggio di László, si sia ispirato (oltre a Louis Kahn, Paul Rudolph) all’architetto Marcel Breuer, poiché ha tanti punti in comune col protagonista: ha studiato al Bauhaus, è ungherese, è brutalista e realizza anche lui sedie e mobili in tubolari d’acciaio e nel 1937 si trasferisce negli USA dove realizzerà il celebre Armstrong Rubber Building, capolavoro brutalista di New Haven, progettato nel 1967.
La pellicola è un’opera-monstre che riassume quanto avvenuto in Ungheria durante e dopo la Seconda guerra mondiale, che approfondisce il rapporto di speranza e disillusione, amore e odio, con gli Stati Uniti d'America, luogo dell'accoglienza e terra degli uomini liberi ma soprattutto tempio del profitto e dell'ipocrisia nella cruda realtà.
Un grande affresco in cui emergono ridondanze, scontrosità e pedanteria con una buona dose di ambiguità “politica”, di un cinema apertamente wagneriano, capace di saziare il filo narrativo, sovrapponendo eccessi, simbolismi e metafore. Le figure dell'architetto e il tycoon rappresentano due realtà distanti, non solo quella dell'arte e dell'economia, ma anche quella americana ed europea, quella dei vincenti e degli sconfitti.
L’imponente l’edificio-chiesa-mausoleo di Doylestown, che fa da cardine per buona parte alla narrazione del film (girato in Ungheria, alcune scene in Italia, nelle cave di marmo di Carrara, in Toscana), è la testimonianza delle forze che hanno mosso l'America della guerra fredda: il denaro, l'arroganza, il senso di superiorità morale e la sopraffazione. The Brutalist è prima di tutto, un’analisi che scompone, analizza e infine rivolta come un calzino l’idea del Sogno Americano e tutta la mitologia che gli sta intorno.
È una dura denuncia di una società violenta e opportunista, famelica e astuta, indifferente e moralista. Un’opera architettonica con la sceneggiatura di Mona Fastvold, la fotografia di Lol Crawley, la colonna sonora di Daniel Blumberg, e la grande maestria di Brady Corbet, che riesce a unire l’eleganza di Visconti alla profondità narrativa di Paul Thomas Anderson, creando un equilibrio tra stile e contenuto. A questo si aggiunge l’impareggiabile interpretazione da Oscar del magnetico, Adrien Brody, che regala al suo personaggio un’eccellente profondità emotiva, e la superba performance di Guy Pearce, perfetta incarnazione del Mito Americano scisso tra il salvatore e il demone, capace di aggiungere ulteriori sfumature alla trama incalzante e avvincente.