Non è quello che si sente dire dei cani, dei gatti e perfino delle scimmie quando ci si sofferma a guardare le loro inimitabili espressioni? E se invece fosse proprio la parola ad appiattire la vitalità e il mistero degli animali, se il nostro furore antropocentrico per comodità e per semplificare le cose li segregasse nel linguaggio parlato, giusto per sanare i nostri limiti di comprensione.
La fertile industria dei cartoni animati (ormai espressione da album dei ricordi), ha dotato di dialoghi e di parole centinaia di storie trainate dalla curiosità che i bambini e i genitori che li accompagnano al cinema riservano al mondo fiabesco degli animali. Disney, e più tardi Pixar, hanno creato modelli di animali parlanti, inventando battute furbe, sagge, accattivanti per tenere alta l’attenzione. Pur con notevoli punte di creatività, alla lunga il gioco ha mostrato i suoi limiti, ricalcando schemi mentali che col mondo animale non hanno nulla a che fare.
In questo consolidato panorama arriva improvvisamente un estraneo, un diverso, un eretico film scritto e firmato dal giovanissimo regista lettone Gints Zilbalodis. Carneade, chi è costui? Nato in Lettonia, meno di 2 milioni di abitanti. Autodidatta, autofinanziato, autogestito: Zilbalodis viene dal basso. A 17 anni il primo cortometraggio, a 25, Away, il primo lungometraggio di cui ha il controllo assoluto essendo: produttore, regista, animatore, sceneggiatore, montatore, direttore della fotografia, fonico, compositore, art director. È la storia senza parole di un giovane perseguitato da un’oscura presenza. Inquietante. A sorpresa vince il festival di animazione di Annecy, gira in parecchi festival e capitalizza incontri che lo aiutano a produrre il suo secondo film.
A 29 anni si presenta con disinvoltura al festival di Cannes e Flow lascia strabiliati. Altra fantasia, altri paesaggi, e Blender, il software con cui lo ha elaborato, è un open source, quindi disponibile a tutti.
Come dire, se avete immaginazione e qualcosa da raccontare, potete darvi da fare anche con un budget limitato. Non avrete la perfezione delle silhouette, ma quella dei paesaggi vi lascerà senza fiato. Da dove cominciare? Per prima cosa, in Flow gli animali non parlano, reagiscono e vivono secondo le caratteristiche che la Natura gli ha fornito.
Il gatto protagonista si comporta come un gatto quando deve affrontare i primi segnali di un’inondazione che lo sradica dal suo habitat. E non si tratta di un’inondazione occasionale, limitata a qualche disgraziato errore degli umani.
No, gli umani in giro non ci sono più, non se ne vede uno. Probabilmente la catastrofe li ha già inghiottiti nelle sue profondità. Restano altri animali, branchi di cervi che fuggono dall’onda anomala che li insegue, lemuri e cani capaci di sopravvivere all’impeto della corrente, uccelli aggressivi e maestosi, dotati di ali smisurate; e poi un goffo capibara, il roditore del Sudamerica che sembra una nutria sovrappeso.
Un cast precario, che per necessità si tiene a galla dentro una barca a vela slabbrata. L’esperimento della convivenza sottolinea le loro diversità, non le risolve con frasi ad hoc, le lascia vivere nel complesso reticolo di reazioni e comportamenti che ognuno conserva, malgrado il bisogno di fare fronte comune. Solidali, sì, ma senza tradire il loro carattere, conservando perfino quelle fisime che non riescono proprio a superare. La fissazione del lemure per uno specchio trovato chissà dove, la voracità incosciente del cane più grosso, la pigrizia sonnolenta del capibara, che si sdraia non appena può schiacciare un pisolino, l’autonomia del gatto, con la sua superiore intraprendenza.
Ma Flow non si limita a questa innovativa proposta. La rotta della barca sgangherata su cui viaggiano gli animali procede nella tempesta, fluttua nella bonaccia, attraversa vestigia di civiltà sommerse, evoca l’Atlantide che diventeremo se l’innalzamento degli oceani e lo sciogliersi dei ghiacci procederà al ritmo attuale. Poco alla volta, in noi s’insinua il timore che quello a cui stiamo assistendo non sia un film per bambini, e se anche lo è ha il pregio di sollecitarli a rimodulare il mondo fiabesco dei film a cui sono stati abituati. Li responsabilizza a riempire con l’immaginazione il vuoto che le falsità verbali di comodo hanno lasciato.
Intanto noi siamo proiettati in una visione del nostro inevitabile futuro con una maestria e una discrezione che lascia ancora spazio a una presa di coscienza. Ci sono scene che hanno il dono della sacralità. Una in particolare, potente, sospesa sul ponte di un’altra dimensione. Dal picco di una roccia che sembra protesa verso lo spazio siderale, siamo testimoni di un passaggio segreto, commovente: l’ascensione del regale uccello che ha difeso il gatto quando è stato in pericolo. È un atto che ha le stimmate del sacrificio, il destino di un iniziato arrivato al punto di non ritorno.
Ci sono citazioni filosofiche nel mondo animale, ma sono invisibili, non vengono pronunciate, e non se ne sente affatto il bisogno. Flow è il flusso dove tutto scorre secondo Eraclito, il pensatore greco capace di ispirare ancora intere generazioni: basta osservare il corso della Natura di cui siamo parte, e che stentiamo ad accettare, disperatamente aggrappati alle cose e agli affetti.
L’eterno ritorno si rispecchia nell’immagine di Atlantide, dell’antico impero di Babilonia, delle piramidi d’Egitto, e arriva come un potente raggio fino alle ormai barcollanti impalcature dell’Occidente.
Millenni condensati in un solo dente della grande ruota del Tempo. Anche per questo il gatto e gli altri animali del film, a loro modo, devono chiedersi quale mondo può riemergere dall’abisso, quale nuovo corso li attende. È la domanda che l’occhio di un Moby Dick morente rivolge agli animali sopravvissuti e di conseguenza anche a noi. Poteva un giovane regista lettone presentarsi con un biglietto da visita più intenso e problematico?
Flow si è aggiudicato il premio per il Miglior film d'animazione durante la notte degli Oscar 2025, ed è anche il primo premio Oscar in assoluto della Lettonia.