Chiara Ianeselli, curatrice indipendente è stata coinvolta nell’organizzazione di svariate mostre e ha affiancato la direzione dei progetti culturali dell’edizione 2012 di Artissima a Torino. Dal 2014, si occupa del progetto Les Gares dedicato a diversi teatri anatomici europei.
Può parlare più approfonditamente della nascita del progetto? Cosa l’ha spinta verso un traguardo così ambizioso?
Il progetto Les Gares nasce a fine 2014 quando visitai per una conferenza di astrofisica il Teatro Anatomico de Waag di Amsterdam. Solo dopo essermi seduta, mentre ammiravo i codici delle armi dei chirurghi olandesi sul soffitto ottagonale compresi la funzione di quel luogo: uno spazio apposito costruito dall’uomo per studiare l’uomo, un immenso specchio architettonico. Mi impegnai a studiare tramite alcune pubblicazioni la storia del teatro. Organizzai poi un incontro con Waag Society che sovrintendeva il teatro (un Fablab con un laboratorio di biochimica e molto altro) per comprenderne le varie funzioni attuali; proposi di incontrare un incontro con un chirurgo specializzato nella storia dell’anatomia e nelle raffigurazioni delle dissezioni anatomiche, conoscendo poi altri storici dell’arte “specializzati”. Da qui una prima rete di contatti e possibili esploratori. Una volta radunate diverse discipline immaginai una mostra con interventi specifici, che continuasse nel tempo e nello spazio e che si proponesse di costituire una mappa dei teatri anatomici, nel mondo, teatri anatomici anche oggi trasformati oppure cancellati, nelle loro tracce. Parallelamente a questi studi mi accorsi ben presto del vuoto sulla materia: non c’è una pubblicazione che riunisce le vicende di formazione e di sviluppo di queste “chiese dell’anatomia”, cui dobbiamo una parte fondamentale delle scoperte sul concetto di “essere umano”.
Quali nuove letture del Teatro Anatomico classico possiamo dare nel nostro Secolo?
Penso che non ci sia una lettura univoca del teatro anatomico “classico”, perché ciascuno ha avuto e ha tuttora una sua identità, storia, origine, un milieu culturale e una temperatura in cui si è costituito, delle scuole che ha contribuito a formare. L’idea che una dissezione fosse pubblica e che diventasse un evento per la città, cui le autorità pubbliche erano invitate, come ad esempio nel caso del Teatro Anatomico dell’Archiginnasio a Bologna pone delle questioni interessanti dal punto di vista sociologico e filosofico. Diverse sono le mostre (si citino solo Spectacular Bodies, Hayward Gallery, 2000; Il Teatro dei corpi, Biblioteca Marciana, 2004/2005, Rappresentare il corpo, Museo di Palazzo Poggi dell'Università di Bologna, 2004/2005, o in generale le mostre della Wellcome Collection) che hanno sondato il rapporto tra arte e anatomia, partendo da raffigurazioni artistiche del corpo per poi espandersi ad altri ambiti. Non credo che l’aspetto interdisciplinare o l’apertura a un pubblico diverso sia dunque prerogativa contemporanea, nemmeno il coinvolgimento degli artisti (invitati in passato a decorare questi teatri oppure a rappresentarne/interpretarne il contenuto). L’aspetto performativo, con delle regole precise, dei ruoli e degli spettatori era in parte già inscritto nell’aspetto rituale della dissezione anatomica. Credo piuttosto sia una necessità insistere sui luoghi stessi per studiarne l’evoluzione e per esserne trasformati: gli strumenti di conoscenza di cui disponiamo oggi (e la possibilità di diffusione di queste conoscenze a diversi profili), permettono di sviluppare una visione organica di questi teatri, diacronica. Non credo si debba andare verso una lettura necessariamente contemporanea di questi spazi: lo sono già.
La mostra visitabile a Padova è il terzo capitolo di un progetto internazionale già assestato, ne sono previsti altri per nuove esposizioni?
Dopo le mostre di Amsterdam, 2015 e di Bologna, 2015/16, il progetto è giunto a Padova, al Teatro Anatomico di Palazzo del Bo, il più antico conservatosi fino ad oggi, del 1595. Les Gares si costituisce anche come una proposta di mappatura, non solo geografica, dei teatri anatomici. Sto portando avanti contemporaneamente diverse ricerche, muovendomi su più fronti, coinvolgendo diversi profili di ricercatori. Non c’è una forma univoca di attrazione verso i teatri in sé, questi ambienti si sono spesso estinti in diverse città e queste sparizioni mi interessano tanto quanto le sopravvivenze. Sto lavorando dunque anche in questa direzione. Proprio recentemente ho avuto possibilità di condividere diverso materiale in un gruppo di ricerca di cui faccio parte, THESA (Theaters Science Anatomy) formato da Luca Borghi, Professore presso l’Istituto di Filosofia dell'Agire Scientifico e Tecnologico Università Campus Bio-Medico di Roma; Maurizio Rippa Bonati (già citato), Professore di Storia della Medicina presso l’Università di Padova; Andrea Cozza, laureando in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Padova; Emanuele Armocida, medico in formazione specialistica in Medicina del Lavoro; Valentina Cani, post doc presso l’Università di Pavia e collaboratrice presso il Museo di Storia della Medicina di Pavia; Chiara Mascardi, con un dottorato concentrato sul ruolo dei teatri anatomici nella cultura moderna.
La mostra è visitabile su due piani: quello storico e quello contemporaneo. In che modo il visitatore dovrebbe approcciare il tutto, dal suo punto di vista?
Non credo ci siano limiti precisi che ci permettono di identificare precisamente e con perfetta definizione e distinzione l’uno o l’altro. Le informazioni che lo spettatore si porta appresso, così come la sua genetica, il suo comportamento sono elementi codificati e stratificati, parimenti alla storia dell’edificio: difficile identificare il discrimine. La mostra di Padova insiste in particolar modo sull’idea della visione, studiando i piani, le prospettive, gli strumenti e le forme dell’occhio. Le opere di Alberto Burri (Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri), Nicola Samorì e Gustave Joseph Witkowski indagano indirettamente i piani della vista, muovendo continuamente l’assetto della visione. L’idea trae spunto da una pubblicazione di Maurizio Rippa Bonati, storico della Medicina presso l’Università di Padova, relativa alla forma circolare, “oculare” del teatro da forse potersi collocare entro gli studi sulla visione dell’Acquapendente, anatomista della fine del Cinquecento. Lo spettatore non dovrebbe far altro che sentire, guardare e immaginare, non necessariamente leggere o dover capire. Sono spazi che si lasciano percorrere con facilità ed invitano ad un passo lento, ossequioso, mai disteso.
Quali sono state le sfide e i limiti (qualora ve ne siano stati) nell’occuparsi di un argomento così ampio? Quali i valori?
I teatri anatomici non sono molto conosciuti, si tratti spesso di camere inscritte in altre architetture, spesso purtroppo letti entro una chiave macabra, necrofila. Credo invece che siano più interessanti se visti sotto altri profili, scientifico in primis e poi come spazi di ricerca, di sperimentazione. L’anatomia, l’esperienza del taglio di un oggetto per conoscerne struttura e funzioni, è un metodo di ricerca che permette di individuare le componenti. Questo termine si oppone idealmente al concetto di atomo, qualcosa di non altrimenti sezionabile, una parte (idealmente) indivisibile. Credo che la materia anatomica sia scomponibile all’infinito, ma che si debba tendere poi verso una visione d’insieme, un Teatro della memoria o della conoscenza, non dissimile dal modello di Giulio Camillo. Il fatto che questi spazi solo nell’ultimo decennio si siano aperti ad ospitare diversi tipi di iniziative (conferenze, esposizioni, performance, letture, recite teatrali etc.) e che questi eventi costituiscano più l’eccezione che la regola costituisce un plus-valore incredibile, credo non negoziabile.