Bisogna smetterla di insultare la memoria di Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1490 circa), figlio illustre delle Dolomiti, che ci ha donato le sue Flore, le sue Veneri, coperte di chiome rosseggianti dorate, e impedire la circolazione per i monti di un brutto cartone animato con velleità di ambasciatore della vita alpina. La colpa è di una co-produzione elvetico-nipponica a cavallo di due secoli: i giapponesi l’hanno disegnata e mandata in TV negli anni Ottanta del Novecento, ma la svizzera Johanna Spyri, autrice di libri per bambini, poveretti, l’ha creata nel 1880: certo è che Heidi, la pupattola zuccherosa alla quale le caprette fanno “ciao”, stona con i dipinti del Tiziano, il pittore di fronte al quale Carlo V si inginocchiò a raccogliere il pennello.
E se l’episodio non è vero ci crediamo lo stesso perché è troppo saporito: il potere che riconosce la supremazia dell’arte. Inoltre il ritratto dell’imperatore, conservato al Prado, è uno dei capolavori dell’artista veneto. Non è poi solo una questione estetica, siamo partiti da quella in onore del Tiziano: Heidi è deleteria e nuoce alla causa della salvezza della montagna, e quindi della pianura che ne riceve i guasti anche se non se ne accorge, sulle prime. Per questo Sergio Reolon, dal 2004 al 2009, presidente della provincia di Belluno, territorio che “possiede” il sessanta per cento delle Dolomiti, vuole eliminare Heidi e siccome istiga un’intera comunità a commettere un delitto, spiega perché questo è necessario. Lo fa con il pamphlet, Kill Heidi. Come uccidere gli stereotipi della montagna e compiere finalmente scelte coraggiose, appena pubblicato da curcu & genovese, un’ottantina di pagine documentate, argute, oneste che sono un grido di ribellione contro l’ottusità e la scomparsa della Politica che ha lasciato il posto alla politica, anzi neppure a quella.
“Il mito di Heidi, con la sua immagine bucolica e stereotipata di una montagna di fatto inesistente, ostacola lo sviluppo di una politica obiettiva per i territori montani - argomenta Reolon -. E, come vedremo, l’esigenza di politiche e scelte coraggiose è un’esigenza che va ben oltre le vette delle nostre montagne. Ecco perché dobbiamo uccidere Heidi: perché è il simbolo della subalternità verso la metropoli urbana e della spoliazione della dignità dei montanari”.
Come scrive lo storico dell’alpinismo Enrico Camanni in Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia (Laterza, 2016), in un passaggio che Reolon riporta: “La storia di Heidi si basa sulla contrapposizione tra montagna virtuosa e città viziosa, l’antico paradigma della letteratura romantica. Gli stereotipi alpini ci sono tutti: il povero cibo montanaro di Heidi contrapposto al ricco desco cittadino della famiglia Sesemann, il letto di paglia di Heidi e i morbidi cuscini di Klara, la rustica baita di legno e i saloni stuccati di Francoforte, le sudate conquiste del lavoro contadino e le scontate dovizie dei beni di città […]. All’Alpe è riconosciuta la virtù morale, ma la supremazia politica ed economica resta nelle mani dei cittadini”.
Heidi è fuorviante perché in montagna si vive di fatica, di stenti e non basta l’aria fresca ad allietare la situazione, conferma Reolon raggiunto al telefono. Ammiratore di Carlo Maria Cipolla che, nell’imprescindibile Le Regole fondamentali della stupidità umana (In Allegro, ma non troppo, Il Mulino, 1988), individua quattro tipi umani, gli sprovveduti, gli intelligenti, i banditi e gli stupidi, Reolon descrive i suoi quattro tipi: il non montanaro che idealizza la montagna senza conoscerla, il montanaro scompaginato che la abita disconnesso, il montanaro localista che si chiude a riccio in poche rassicuranti certezze, e il montanaro civicus a cui affidare la speranza di una rivoluzione civile.
Impegnato da anni con passione sui temi dello sviluppo montano, nel tempo consigliere, assessore, vice-presidente provinciale e alle elezioni del 2010 è stato eletto consigliere regionale del Veneto, ora Reolon è desolato. Cominciamo la conversazione con lui da una frase di Mario Rigoni Stern: “Quando anche l’ultimo montanaro se ne sarà andato, le ortiche invaderanno anche piazza San Marco”. L’autore scrive e parla con uno sguardo sul Bellunese, ma il problema riguarda tutto il nostro Paese: “Il bosco avanza, il territorio si inselvatichisce, perde i visitatori, diventa più fragile dal punto di vista idrogeologico. Le alluvioni e le frane partono sempre dalla montagna, se la montagna è curata l’acqua s’infiltra, il prato sfalciato la assorbe, scende a valle lentamente invece abbiamo asfaltato e cementato tutto e l’acqua arriva subito, con violenza. Cementificazione, asfaltatura e abbandono del territorio vogliono dire dissesto e perdita di interesse turistico, zootecnico e agricolo. A pagare questa fragilità è la pianura”.
Va molto male ovunque?
“Sì, escluse le province di Bolzano e di Trento. La provincia di Bolzano ha messo al centro l’agricoltura fin dal principio, il suo terrritorio è un giardino continuo. Non c’è un corso d’acqua non regimentato, non c’è un prato non sfalciato. Ogni contadino lo fa. Le province di Bolzano e di Trento sono governate da gente che ci vive, che conosce quei luoghi e ha la cultura di quei luoghi. I presidenti della provincia di Bolzano e di Trento hanno i problemi di una regione montana. Il presidente della Regione Veneto ha il problema del Mose (la struttura che separa la laguna dall’Adriatico n.d.r.), dell’esondazione a Vicenza e così via: alla sera si ricorda che c’è la montagna ma è tardi e va a letto. Siccome la maggior parte dei cittadini abitano nelle metropoli, l’unico modo perché la montagna possa vivere è la possibilità di autogoverno. Perché la montagna non è rocce: è il lavoro dell’uomo. Bisogna lasciare alla montagna le risorse che produce, perché in montagna fare opere pubbliche costa di più. Perché sette, otto mesi all’anno fa freddo e l’agricoltura rende di meno, bisogna che le risorse vengano lasciate alla montagna che non può partecipare alle spese dello Stato”.
Il nocciolo della questione è politico?
Se le Poste sono una società per azioni non hanno interesse a tenere aperto un ufficio postale in una frazione montana. L’alimentari del paesino non regge più, non ha reddito per giustificare la sua apertura, ma il negozio ha anche un funzione sociale, con la sua chiusura, e la chiusura del bar, si rompe una rete di solidarietà sociale che ha sostituito e fatto risparmiare lo Stato. Non ci sono collegamenti diretti per viaggiare, eppure quelli che abitano in Cadore hanno gli stessi diritti di chi vive a Padova. La politica deve cercare di riequilibrare quello che il mercato squilibra e questa politica non c'è più. Non c’è nemmeno reazione da parte della società. È la desolazione.
Una zona che eccelle nel mondo per l’industria dell’occhiale, per paradosso, ha avuto la vista corta.
In seguito al disastro del Vajont, la provincia di Belluno ha avuto forti incentivi per l’industrializzazione, in particolare per l’occhialeria. Nei garage del Cadore gli operai si erano messi in proprio lavorando a cottimo per gli occhiali. Tutti hanno abbandonato l’agricoltura. Grazie all’industria dell’occhiale abbiamo conosciuto trent’anni di ricchezza, non ne parliamo male, ma questo ha comportato che le altre attività sono state abbandonate. Invece si poteva sviluppare l’occhiale, incentivare il turismo e coltivare. La difficoltà è leggere e valorizzare le differenze: non si sono fatte scelte lungimiranti, purtroppo.
La crisi e l’immigrazione complicano il quadro.
“La crisi in atto sta portando un accentramento della ricchezza, dei poteri. C’è un’immigrazione verso le città. È avvenuto quello che non era mai accaduto nella storia dell’umanità: nelle zone urbane abita più del 50 per cento delle persone. Il territorio è abbandonato e dall’altra parte c’è la criticità nelle metropoli con la rabbia, la povertà, il disagio delle periferie. Una politica intelligente invece che crearsi un doppio problema, in città e fuori città, incoraggia la possibilità di rimanere sul territorio. Ma se questi incentivi non ci sono e manca il lavoro chi resta? I vecchi”.
Sergio Reolon si ristora guardando le sue amate Dolomiti dai colori “accesi, lividi e struggenti” che, anche grazie a lui, sono diventate patrimonio mondiale UNESCO: “Senza bellezza non si realizza la vita, recita la prima delle Tesi dei Colloqui di Dobbiaco dell’ormai lontano 1998. Quella bellezza che mi ha sempre spronato, nutrito e accompagnato e che ancora mi tiene in vita”.
Alla fine si è dunque rivelato giusto far fuori la piccola Heidi anche per ragioni estetiche. Che non sciupi le Dolomiti, che non turbi il riposo eterno di Tiziano Vecellio.