Camelot, all'inizio degli anni Sessanta, non era utopia, ma il luogo metafisico dove, intorno ad un nome e ad una famiglia, cresceva il sogno di un'America nuova e diversa.
Un sogno che si alimentava quotidianamente della speranza, dell'ammirazione e anche dell'invidia della maggioranza degli americani per quella famiglia che incarnava tutto quello che ''la terra delle opportunità'' poteva offrire.
Intorno a John Fitzgerald Kennedy stava nascendo un sito quasi magico, dove tutti erano belli, ricchi e portatori di un nuovo modo di guardare al futuro, in cui essere figli degli Stati Uniti era una condizione per sperare che tutto sarebbe andato per il meglio, grazie ad una pace mondiale che, facendo tesoro della terribile lezione della guerra, si reggeva sulla reciproca paura.
Camelot, dove JFK, ancora nemmeno sfiorato da tutto quello che (di imbarazzante) di lui si conosceva nella cerchia dei suoi amici e nemici, faceva da sole, intorno al quale ruotavano coloro ai quali lui doveva il suo successo, da senatore prima e da presidente poi dai quali sarebbero usciti i continuatori della sua eredità politica.
Oggi quel sogno appare sfocato, e non soltanto perché da quella golden era sono passati più di sessant'anni. I Kennedy sono stati un punto di discrimine tra l'America che stava ripartendo dopo la Seconda guerra mondiale e quella che avrebbe mostrato i muscoli, anche lontano dai suoi confini, per esportare un modello di democrazia che era suo, ma che voleva imporre anche su chi, popolo, non era pronto ad adeguarvisi. Ma Camelot, come il mito, è diventato passato, e non solo per la impressionante sequenza di drammi che hanno accompagnato il clan familiare creato dal patriarca, Joseph Patrick Kennedy, Sr, detto Joe, sulle cui fortune tanto si è detto, scritto, speculato.
Un clan pensato e fatto per fare uscire da esso i futuri reali americani, con JFK destinato a farsi monarca. E monarca fu, nonostante la pesante eredità paterna (con molte ombre, ma anche tante certezze sull'origine della sua ricchezza), nonostante il suo comportamento al di fuori dell'ufficialità. Eppure, John Kennedy è entrato nella leggenda, anche perché fu il primo presidente a morire in diretta, con la moglie, Jackie, a raccattare i pezzi del cervello volati via per le pallottole sparate dal Carcano di Lee Harvey Oswald.
Cosa c'è di meglio, per un mito, che una morte gloriosa e inattesa e sotto riflettori e telecamere? Un mito destinato a correre nell'arco di due secoli e che oggi è appassito, per gli scandali messi sotto il tappeto (Chappaquiddick, ma non solo), le morti precoci che hanno privato la famiglia dei migliori tra gli eredi (John Kennedy jr, che, bimbo, salutò, come un piccolo soldato, la salma del padre, poggiata sull'affusto di un cannone).
L'ultimo miglio di questa storia è forse il più sconcertante perché, dietro quel nome, Robert Kennedy (jr), si condensa oggi tutto il peggio della politica e dell'opportunismo, perché, piuttosto che essere il prosecutore dell'opera del padre (morto per mano di un immigrato palestinese, Shiran Bishara Shiran, da 45 anni in carcere), destinato a succedere al fratello, questo qui ha deciso di cavalcare la folle bestia dell'ambizione personale, sposando le tesi più assurde - dal complottismo in avanti - pur di raccattare qualche ora davanti ai riflettori.
Un personaggio controverso che, dopo essersi candidato alla presidenza degli Stati Uniti, ha fatto un imbarazzante dietro-front, schierandosi con Donald Trump, che gli ha già promesso un posto nella sua eventuale amministrazione. Un baratto, non certo una scelta motivata politicamente, che fa a pugni con la storia di ''democratico da sempre'' di Robert Kennedy, che, dopo avere passato il guado, è stato gratificato da Donald Trump con aggettivi come ''fenomenale'' e ''brillante'', più che complimenti, necrologi del passato familiare del transfuga. Che è stato immediatamente bandito dai suoi congiunti, a cominciare dai fratelli che certo non hanno trovato alcuna giustificazione al suo endorsement verso un repubblicano.
Loro, i Kennedy, che hanno incarnato lo spirito democratico per qualche generazione.
Per tutti, ha parlato Kerry Kennedy, sorella di Robert Kennedy jr, che ha definito il sostegno a Trump un "tradimento dei valori che nostro padre e la nostra famiglia hanno più a cuore. È una triste conclusione di una triste storia''.