Il 28 novembre del 2011 sono in viaggio per lavoro. Mi sintonizzo su Radio 3 per la rassegna stampa e sento una nota giornalista, nella bella rubrica, ancora oggi dedicata alla lettura dei quotidiani, leggere "dissuàdere" con l'accento sdrucciolo. Penso a una svista. Può succedere anche a una giornalista di grido, fra tante letture, sbagliare un accento.

Mi sposto al Caffè della stessa Rete: altra rubrica importante, altro giornalista di grido. Stesso articolo, stesso verbo, stesso errore: accento sulla terzultima invece che sulla penultima. Allora non è un caso: due giornalisti di grido che sbagliano lo stesso accento. Supero l'irritazione, pensando che forse sono io a sbagliare o che magari si può pronunciare in entrambi i modi.

Mi concentro sulla notizia e la mia irritazione scompare del tutto.

Lucio Magri si è suicidato e io sto qui a indignarmi per un accento sbagliato.

Provo dispiacere per il gesto disperato del fondatore del Manifesto.

Forse mi sarei scandalizzato di meno per quell'errore sugli accenti, se i due giornalisti avessero dato più spazio al dibattito sulla scelta fatta dal loro collega.

Poteva essere un'occasione buona per dibattere di eutanasia; o quantomeno per mettere in evidenza la debolezza che ci contraddistingue e che, tanto più sul volgere del tramonto della nostra vita, rischia di farci sentire più soli e indifesi che mai.

Invece ho avuto come l'impressione che le due rassegne stampa esaltassero (giustamente) il professionista, ma tralasciassero (erroneamente) di discutere l'uomo e la sua posizione nel Creato, accentuando piuttosto la sua libertà assoluta e indiscutibile di scelta sia in riferimento alla vita, sia in riferimento alla morte. Anche qui sbagliando l'accento.

Ma gli accenti politici sono quelli che fanno più male. Ripenso a un caso di due anni prima, quello di Eluana Englaro, che forse è quello che ha suscitato, in maniera più vivace, il delicato dibattito sul tema dell’eutanasia.

Ma quanta confusione, quanta ipocrisia, quanta cecità, soprattutto da parte dei nostri politici! Anche qui mi preme fare alcune precisazioni. Primo: Il padre di Eluana ha vinto la sua battaglia perché è risuscito a dimostrare che Eluana non avrebbe voluto vivere così!

Secondo: Eluana era viva, anche e soprattutto per il padre. Era un caso pietoso, da chiudere nella discrezione degli ospedali, nel silenzio del dolore, come gli innumerevoli altri casi di persone in coma di cui non sapremo mai; come gli aborti, che ai miei tempi erano clandestini ed oggi sono pagati dall’assistenza pubblica, ma non per questo sono meno crudeli per chi li pratica (medici e infermieri) e per chi li subisce (madre e bambino). E invece no! Il boccone politico era troppo appetibile per farselo sfuggire! E tanto a destra, quanto a sinistra è iniziato il balletto intorno al capezzale di una povera moribonda. I falsi difensori della vita e gli ignobili difensori della libertà! Nessuno ha pensato all’anima di una indifesa ragazza senza tempo. Preghiamo per lei almeno adesso che l’anima è finalmente libera dal corpo.

È doveroso, a questo punto, riportare il dibattito ai giorni nostri, per fare anche il punto normativo sulla situazione italiana.

Al momento l'eutanasia non è legale in Italia. C’è un vuoto legislativo in materia. Questo vuoto è emerso con maggiore evidenza dopo la sentenza numero 242 del 2019 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 580 Codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017 n. 219, agevola l’esecuzione di un proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, da parte di una persona che versi in certe condizioni artificiali di vita, verificate però da una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente, e con fissazione delle modalità di esecuzione da parte dello stesso Servizio Sanitario nazionale.

Come si vede una disciplina assai complessa, per una materia comunque delicata e complicata. Il problema che si è posto nell’applicazione quotidiana fatta dai Tribunali, del principio fissato dalla Corte Costituzionale nella richiamata sentenza del 22 novembre 2019 n. 242, è stato quello, semplificando al massimo, di stabilire quali siano questi trattamenti di sostegno vitali e queste patologie irreversibili che io nel mio articolo, sempre per semplificare, ho definito “condizioni critiche”.

Infatti, mentre all’inizio si intendeva con questo termine solo alimentazione, respirazione e idratazione, più tardi è stata riconosciuta dai tribunali anche la chemioterapia. Proprio la dipendenza da un trattamento di sostegno vitale ha portato uno dei tribunali a investire nuovamente della questione la Consulta, per decidere di fatto se questo requisito possa essere discriminatorio per certe patologie, che concretamente siano da considerarsi dei sostegni vitali, suscettibili di costituire una fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili.

C’è poi il problema del consenso libero e informato, fissato dalla già citata legge n. 219 del 2017, che lo pone alla base di ogni trattamento sanitario, ancorandolo però, non al diritto di morire, ma al diritto di rifiutare tutte le cure, non solo quando non vi sia più speranza di guarigione, ma anche se le condizioni del mantenimento in vita siano divenute intollerabili nella percezione del malato.

E anche la Corte Costituzionale, prima nell’ordinanza n. 207 del 2018 e poi nella sentenza n. 242 del 2019, ha considerato come punto acquisito che nel sistema normativo italiano il diritto di vivere non si converte nel suo contrario, il diritto di morire.

Resta da dire infine del referendum che nelle intenzioni dei promotori doveva legalizzare il diritto all’eutanasia.

Come è ormai noto a tutti lo strumento referendario, in certe materie, opera come un bisturi in mano a un chirurgo inesperto, rischiando di procurare all’organismo che si pretende di curare, un male peggiore di quello che si vorrebbe invece guarire.

Sia sufficiente qui richiamare i disastri operati dagli esiti referendari in materia di leggi elettorali. Ho messo in evidenza, in altre occasioni e in diversi contesti, come l’arma referendaria, in una società civile come la nostra, ancora troppo facilmente influenzabile da abili, per non dire subdole, campagne propagandistiche, finisca con il produrre delle amputazioni inconsapevoli, da parte del corpo elettorale, chiamato alle urne quasi come un giustiziere che debba punire le incapacità del legislatore, nei centri nevralgici del corpo normativo vigente.

Forse anche per queste ragioni la sentenza n. 50 del 2022, ha inteso dichiarare l’inammissibilità del quesito referendario teso a emendare l’articolo 579 del codice penale.

Da più parti è naturalmente partita la grancassa tesa a denunciare l’arbitraria negazione ai cittadini del diritto di esprimersi su un tema così sentito e coinvolgente.

Il dibattito resta ancora aperto, ma questa materia deve essere rivista dal legislatore e non deve essere affidata alla cieca mano di un referendum.

Anche se, con questi chiari di luna, non credo che una buona legge sull’eutanasia sia suscettibile di approvazione in tempi celeri.