La pubblicazione dei documenti di Panama è stata assimilata in pochi giorni, come se si trattasse di uno scandalo qualsiasi. Siamo ormai tanto abituati agli scandali che non riusciamo a distinguerli, contribuendo a una reazione del pubblico in generale: tutti sono corrotti e la politica è pura corruzione. Di questo, naturalmente, si approfittano la destra radicale e i partiti xenofobi, la cui crescita non si arresta in tutte le elezioni, da Donald Trump negli Stati Uniti a Nigel Farage nel Regno Unito. Farage ha chiesto subito le dimissioni di Cameron, che si trova tra i clienti dello studio legale panamense Mossack Fonseca, responsabile per l’assistenza fornita a più di 14.000 clienti nella creazione di 214.488 aziende in 21 paradisi fiscali. In alcuni casi, come in Islanda, l’indignazione pubblica ha causato le dimissioni del primo ministro. Ma la reazione generale ha seguito il modello Cameron: negare ogni addebito e semplicemente aspettare che l'indignazione si dissipi.
Le carte di Panama, naturalmente, hanno ricevuto uno spazio molto importante nei media, tenendo presente i diversi giorni di presenza (non più di cinque). Ma i media non si sono sforzati troppo nel cercare di guardare oltre le carte di Panama e scoprire la reale situazione dei paradisi fiscali. Se lo avessero fatto, sarebbe emersa una verità molto scomoda: gli stessi paesi che parlano pubblicamente contro questi paradisi, fanno ben poco per rimuoverli. Ad esempio, secondo quanto rivelano le carte di Panama, oltre la metà delle società di comodo create da Mossack Fonseca sono state registrate nelle Isole Vergini Britanniche. La logica è la stessa di quella di Panama: una società paga una quota di iscrizione, e da allora in poi una quota annuale (mai più di US $ 500), e per legge la società dovrà pagare le tasse solo per le attività svolte nello stesso paese. È sufficiente soltanto non avere alcuna attività a Panama o in un altro paradiso fiscale per sfuggire completamente alle autorità fiscali locali.
È chiaro che le Isole Vergini Britanniche sono un territorio britannico, come le Bahamas, Bermuda, Turk e Caicos e di conseguenza Londra potrebbe costringere questi territori a rispettare le leggi internazionali in materia di trasparenza e responsabilità. I documenti del “caso Panama” si riferiscono a una sola “impresa in un unico luogo”, nota l’economista Gabriel Zucman autore di La ricchezza nascosta delle nazioni: la piaga dei paradisi fiscali. "Pertanto," spiega Zucman "non possono essere emblematici di ciò che sta accadendo in tutto il mondo". Non si conosce il numero totale delle imprese registrate con l’intenzione di evadere le tasse. In realtà, Zucman stima che oggi nei paradisi fiscali si nasconda la sorprendente somma di 7,6 miliardi di dollari USA, un 8% della ricchezza finanziaria del mondo. L’economista osserva che secondo il Financial Secrecy Index, pubblicato dal Tax Justice Network, con sede a Washington, gli Stati Uniti siamo di fronte a uno dei principali paradisi fiscali, appena dietro la Svizzera e Hong Kong.
Un esempio eccellente di due pesi e due misure. Dopo aver rivelato che le banche svizzere nascondevano capitali americani (fatto che ha portato il Tesoro degli Stati Uniti ad applicare una multa salata), nel 2010 gli Stati Uniti hanno approvato la legge sulla Foreign Account Tax Compliance Act (legge sugli adempimenti fiscali dei conti esteri), che richiede che tutte le società finanziarie in tutto il mondo condividano i dati sui conti americani offshore. Ma allo stesso tempo gli Stati Uniti si rifiutano di firmare qualsiasi accordo per la condivisione delle informazioni finanziarie con gli altri paesi.
Il signor Kleinbard e la signora Lowe, del Global Financial Integrity, sostengono che le banche degli Stati Uniti siano piene di soldi provenienti da investitori esteri. Kleinbard, che era capo di gabinetto del Comitato misto sulla tassazione del Congresso, dichiara: "Gli Stati Uniti esigono che il resto del mondo riveli quando un americano ha un conto presso un istituto straniero, ma gli Stati Uniti non restituiscono il favore fornendo informazioni simili sugli investitori stranieri in banche nordamericane verso le giurisdizioni nazionali di quelle banche”.
Ma in realtà, il segreto delle banche americane va oltre. Infatti, diversi stati americani, incluso il governo federale, usano i loro privilegi costituzionali per proteggere le proprie banche. Heather A. Lowe, consulente legale e direttore degli affari di governo presso il Global Financial Integrity di Washington, ha ammonito che il problema riguarda ognuno degli stati americani e non solo il più conosciuto. "È possibile creare società anonime ovunque negli Stati Uniti: Il motivo per cui la gente conosce il Delaware, il Nevada e il Wyoming è che questi Stati fanno marketing a livello internazionale". Ad esempio, il Segretario di Stato del Delaware ha messo in evidenza nelle sue relazioni annuali che questo sforzo di marketing ha permesso allo "Stato di connettersi con migliaia di avvocati e commercialisti in decine di paesi in tutto il mondo che si riferiscono al fenomeno Delaware". Il Nevada contava su un annuncio simile sul sito web dello Stato: perché incorporare nel Nevada? Dati e obblighi informativi minimi. Identità e dati degli azionisti non sono a disposizione di tutti".
John Cassara, un ex agente speciale del Dipartimento del Tesoro, ha scritto sul New York Times del 7 aprile sulla frustrazione che gli agenti fiscali avvertono quando si cerca di indagare su "chi o cosa c'è dietro quella società: in sostanza, finisci per mollare. Non importa se sei dell'FBI, a livello federale, statale o locale. E neanche se il Dipartimento di giustizia può ottenere l’informazione: non c'è niente da fare". Cassara ha dovuto abbandonare un'indagine in Nevada quando fu trovata una società che aveva ricevuto più di 3.700 bonifici elettronici sospetti per un totale di più di 381 milioni. Chiaramente, non è possibile impostare le regole per la governance mondiale quando i paesi ricchi e importanti usano due pesi e due misure, e neanche riescono a mettere ordine in casa propria. Ma la mancanza di governance globale diventa ancora più evidente quando si scopre che i 34 membri dell'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OCSE) discutono la questione delle tasse globali escludendo tutti gli altri paesi.
Il Gruppo dei 77 e la Cina, che ha 134 membri, ha ripetutamente chiesto alle Nazioni Unite di svolgere un ruolo maggiore nella cooperazione fiscale globale, sempre inutilmente. È importante osservare che nell'elenco dei titolari di conti a Panama troviamo un gran numero di personalità di paesi arabi, Cina, Nigeria, Brasile e così via. Ma esiste un problema culturale, per cui non si trova alcuna soluzione. Le autorità fiscali dei paesi dell'OCSE ritengono che su questioni delicate, è meglio escludere il coinvolgimento di paesi in via di sviluppo, perché la loro presenza faciliterebbe un meccanismo di negoziazione che potrebbe lasciare i paesi OCSE in una posizione di minoranza. L'adozione di un tale meccanismo riconoscerebbe che la governance globale si ottiene solo attraverso un sistema di consultazione e di decisione democratica.
Tuttavia, tale riconoscimento in nessun modo rifletterebbe lo stato d'animo prevalente in un mondo sempre più frammentato. Pertanto, è più logico aspettarsi molti altri scandali, seguiti da qualche giorno di attenzione ai nomi coinvolti, seguiti da una completa ricaduta, in attesa del prossimo scandalo. Quanto tempo può durare questo ciclo senza danneggiare i fondamenti della democrazia? Difficile da prevedere. Nel frattempo, alcuni difensori del sistema attuale hanno già sostenuto che gli scandali sono la prova che la democrazia è viva. Ma se la mancanza di fiducia del pubblico nelle élite politiche ed economiche continua a crescere, è difficile credere che tali scandali aiutino la democrazia...