Se dovessimo prestar fede alle dichiarazioni di Bufalino in merito alla mancata o irrilevante parentela fra il suo primo romanzo e la Montagna di Thomas Mann, queste pagine non avrebbero ragion d'essere. In un'intervista rilasciata nel 1981 a Leonardo Sciascia, rispondendo alla domanda su quali fossero le necessità scrittorie alla base della sua Diceria, egli afferma infatti: «Il sentimento della morte, la svalutazione della vita e della storia, la guarigione sentita come colpa e diserzione, il sanatorio come luogo di salvaguardia e d'incantesimo (ma La montagna incantata, è evidente, non ha giocato per nulla)» [1].
In un'altra intervista concessa a distanza di circa un decennio a Massimo Onofri, lo scrittore comisano si lascia sfuggire invece una sorta di palinodia, se pur controllata e guardinga: «La Diceria dalla Montagna non prescinde, ma non mi pare gli somigli molto» [2]. Tuttavia, al di là di ogni plausibile atteggiamento mistificatorio e talvolta ludico adottato da Bufalino nel respingere o velare un tale aggancio, è forte il sospetto che tra le due opere in questione un rapporto intertestuale propriamente detto, anche se non profondo, debba comunque esistere [3].
Mettere a confronto i due romanzi, evidenziandone le analogie superficiali e le profonde differenze, può servire a gettare ulteriore luce su un testo problematico e multiforme come Diceria dell'untore. Tuttavia, è bene sottolineare subito, e a scanso di equivoci, che tale accostamento viene proposto qui soltanto come utile apparato ermeneutico, ma senza la pur minima ambizione di riuscire vincolante per un qualsiasi approccio critico all'opera prima di Bufalino, sia esso professionale oppure estemporaneo. In altri termini, una comparazione che intende risultare soprattutto come scelta metodologica in grado di far emergere le specificità dell'opera bufaliniana.
II
Qualche semplice dato, anche senza particolari approfondimenti filologici, può aiutare a comprendere meglio alcune delle dinamiche in campo. Concepito inizialmente in forma di racconto, lo Zauberberg venne intrapreso da Mann nel 1912 come sorta di novella-commentario al suo breve soggiorno presso il sanatorio di Davos, in Svizzera, dove la moglie Katia era stata ricoverata a causa di un disturbo polmonare. Lo scoppio della Prima guerra mondiale e altre vicende familiari impedirono allo scrittore tedesco di lavorare con continuità all'opera, la quale, notevolmente ampliata fino alle dimensioni di un romanzo in due tomi, venne infine data alle stampe nel 1924.
La prima traduzione italiana apparve nel 1932, ad opera di Bice Giacchetti-Sorteni, e venne successivamente ristampata nel 1945. In tal senso, giova notare che la biblioteca bufaliniana – visitabile presso la Fondazione della sua città natale – conserva proprio una copia di questa edizione. Stando alle affermazioni dello stesso Bufalino riguardo al suo romanzo: «L'ho pensato e abbozzato nel '50, l'ho scritto nel '71. Da allora, una revisione ininterrotta, fino alle bozze di stampa» [4]. Sulla base di ciò, è facile immaginare che già nella sua fase preparatoria la Diceria non prescinda affatto dalla Montagna incantata, e che l'immagine del sanatorio come luogo di tutela e in certo senso di magia sia ben presente nella mente dell'autore, soprattutto se consideriamo la sua naturale inclinazione per le letture impegnative. E il romanzo di Mann, sia in lingua originale che in traduzione, impegnativo lo è davvero, giacché, sotto la patina di una trama abbastanza scarna, nasconde una rete talmente fitta di simboli, rinvii, manipolazioni e riscritture che spesso ne risulta improbabile la completa decifrazione. La vicenda narrata nel romanzo è nota:
Un giovane ingegnere amburghese, Hans Castorp, si reca presso il sanatorio svizzero Berghof per far visita al cugino Joachim che vi è ricoverato a causa della tubercolosi. Poco prima del ritorno, avvertendo alcuni disturbi, Hans si sottopone a una visita che mette in evidenza un'infezione bronchiale. Convinto dal primario Behrens – che sul giovane ha un certo ascendente – a rinviare la propria partenza in attesa di un miglioramento delle condizioni di salute, rimarrà all'interno del sanatorio per ben sette anni. La prima parte del romanzo descrive i mesi iniziali trascorsi da Hans al Berghof, e i vari personaggi che vi risiedono e vi si alternano. Fra questi, spicca la figura dell'umanista italiano Settembrini, il quale diviene per il giovane un vero mentore, e quella della russa Claudia Chauchat, per la quale Hans – insieme al primario Behrens – concepisce fin da subito una forte attrazione. La seconda parte dell'opera descrive invece i restanti sei anni, durante i quali fanno la loro comparsa o ricomparsa altri personaggi: il gesuita Naphta, amico e poi antagonista di Settembrini; il magnate olandese Peeperkorn, accompagnatore della Chauchat. Nel finale, mentre viene annunciato lo scoppio della guerra e il sanatorio è percorso da inquietudini e insofferenze, Hans decide di far ritorno alla civiltà e di arruolarsi nell'esercito.
Le analogie con il romanzo di Bufalino sono evidentissime. Innanzi tutto il teatro delle vicende è in entrambi i casi un sanatorio, un microcosmo dal quale i degenti guardano con un certo distacco, quasi un luogo d'elezione che permette loro di sentirsi lontani dagli affanni e dalle tribolazioni del quotidiano. I personaggi di Mann, ad esempio, ripetono spesso le formule «hier oben», qui in alto, e «da drüben», laggiù, a sottolineare la distanza sia fisica che morale che li separa dal resto del mondo sottostante. In secondo luogo, c'è poi il sentimento concepito dal protagonista per Marta, ricoverata come lui presso il sanatorio, e come nel caso della Chauchat amata anche qui dal primario.
Palesi risultano anche le differenze. Come lo stesso Bufalino fa notare: «Hans Castorp esce dal sanatorio per affrontare la guerra, mentre il mio eroe ha l'esperienza della guerra alle spalle. Ancora: Castorp si educa attraverso la malattia a un impegno ideologico, sotto la duplice insegna dell'illuminista Settembrini e del romantico Naphta. Il mio eroe, invece, impara da solo la demenza delle ideologie e della storia» [5]. E potremmo concludere questo paragone fra i due protagonisti aggiungendo che Castorp lascia il sanatorio per andare in contro alla guerra, e probabilmente alla morte, mentre l'io narrante della Diceria lascia il sanatorio per far consapevolmente ritorno alla vita.
III
Proprio la demenza della storia cui fa riferimento Bufalino in questa asserzione è forse la chiave di lettura migliore per affrontare il suo testo, sempre tenendo presente lo Zauberberg come cartina tornasole. Quale che sia la porta d'ingresso attraverso la quale tentare un approccio interpretativo del romanzo di Mann – opera polisemica, stratificata, problematicissima – è chiaro che il microcosmo da lui creato all'interno del sanatorio sia una reductio della società europea del tempo e tutto l'impianto narrativo una somatizzazione degli avvenimenti storici a esso concomitanti. Chiusi nel loro isolamento cautelare, i pazienti del Berghof prediligono e condividono un'inerzia ipnotica che mano a mano si fa rifiuto o addirittura disprezzo della vita normale. Il potere seduttivo della malattia avvolge ognuno dei personaggi, mettendo in evidenza quella che, secondo lo scrittore tedesco, rappresenta simbolicamente la malattia stessa del Vecchio continente – di un'Europa sulla quale aleggia minaccioso lo spettro della guerra – e cioè la melanconia. Allo stesso tempo, poiché i degenti del Berghof hanno la possibilità di osservare a distanza e analizzare il mondo sottostante della pianura attraverso la loro prospettiva, il sanatorio, e tutto l'impianto narrativo che gravita intorno a esso, diventa «un ineguagliabile strumento conoscitivo per sondare le contraddizioni e la crisi d'identità che si annidano nella società borghese del tempo» [6].
Il romanzo di Bufalino è sì «una sorta di montagna incantata, spazio mitico, sanatorio dove i malati viaggiano tra le fantasie notturne e si alzano dal letto con un bottino di nuvole»[7], ma, nella sua qualità di luogo rievocato, è soprattutto un contrafforte della memoria, uno spazio del ricordo e quindi della rielaborazione (difatti è lo stesso scrittore siciliano che avverte: «noi non ricordiamo, in effetti, quello che abbiamo vissuto, ma lo inventiamo» [8]). La Diceria è ben incastrata nella storia, in un ben preciso contesto sociale e cronologico, circoscrivibile e del tutto verosimile, ma è anche a margine della storia, la lambisce soltanto, se ne tiene a debita distanza. Ed è racchiusa qui la specificità del romanzo e della poetica bufaliniana, emblematicamente condensata dalle parole di uno dei personaggi del romanzo:
«Ascoltami» soggiunse, con una torva solennità, «e ricordati: io sola sono vera e sarò finché vivo. Voi, gli altri, siete appena barlumi e finzioni che sento respirare e parlare al mio fianco. E la storia non riguarda che voi, io non so cosa vuol dire. Capiscimi: nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte. E tutte le carneficine e derive di continenti e scoppi di stelle sono soltanto canzonetta e commedia al confronto di questo minuscolo e irripetibile cataclisma, la morte di Marta» [9].
È un atteggiamento analogo a quello di Bufalino, come egli stesso ha ribadito più volte nel considerare il proprio sentimento e la propria ineluttabile diffidenza al cospetto della storia: «Rifiuto della macrostoria, dunque, ma amorosa propensione per la storia minore […]. Poiché storia non è soltanto quella osservata negli annali del sangue e della forza»[10]. Questo presa di distanza dai perversi meccanismi della storia ufficiale, dalla ciclicità degli avvenimenti e dalla loro endemica corruzione, si traduce, come accennato poco sopra, in un culto della memoria, in un atteggiamento di mnemofilia che rigetta tanto l'avvenire quanto il presente, per focalizzare retrospettivamente la microstoria del sé. D'altronde, nell'intervista rilasciata a Onofri, era stato già Bufalino a descrivere la condizione esistenziale dell'uomo come una stasi fra un passato che ci sta alle spalle e un futuro che ancora non conosciamo e che potrebbe cessare in qualsiasi momento a causa di una morte improvvisa.
A ragion di ciò, il presente non sarebbe che mera apparenza, poiché non fa in tempo a esistere che già diventa passato, mentre il futuro fluttua inafferrabile come un'ombra. Quel che rimane, allora, è solamente il passato: «Io vivo perché ricordo. E del resto l'ho scritto in qualche posto: “memini ergo sum”, e non “cogito ergo sum”. Per me il cogitare è soprattutto il ricordare, non tanto elaborare pensieri, meditazioni o altro. Non è quello a rendermi vivo. Quello che mi rende vivo è una testimonianza di me quale mi appare in una specie di cinematografia perpetua che è il mio pensiero quando si volge a ritroso a inseguire se stesso nel passato» [11].
Note:
[1] Leonardo Sciascia, Che maestro, questo don Gesualdo, in Gesualdo Bufalino, Opere 1989-1996, vol. 2, Milano, 2007, cit. p. 1318.
[2] Massimo Onofri, Gesualdo Bufalino: autoritratto con personaggio, in Nuove Effemeridi, a. V, n. 18, 1992/II, p. 19.
[3] Non a caso, già all'epoca delle prime entusiastiche recensioni del romanzo, era stata più volte messa in evidenza una certa affinità di temi e situazioni. Cfr. ad esempio Giorgio Bàrberi Squarotti, C'è in Sicilia una montagna disincantata, in Tuttolibri, a. VII, n. 259, 28 febbraio 1981, p. 2.
[4] Leonardo Sciascia, Op. cit., p. 1318.
[5] Ivi.
[6] Claudia Carmina, Il sanatorio come microcosmo emblematico. Alcuni modelli letterari: Bufalino, Satta, Buzzati, in Bufalino narratore fra cinema, musica, traduzione, Comiso, 2002, cit. p. 250.
[7] Maria Corti, Introduzione a Gesualdo Bufalino, Opere. 1981 – 1988, Milano, 2001, cit. p. XV.
[8] Michael Jakob, Infedele è la memoria, in Gesualdo Bufalino, Opere 1989-1996, vol. 2, Milano, 2007, cit. p. 1375.
[9] Gesualdo Bufalino, Diceria dell'untore, cit. p. 114.
[10] Paola Castiglione e Luciano Tas (a cura di), Essere o riessere? Conversazione con Gesualdo Bufalino, Comiso, 2010. cit. pp. 65-66.
[11] Massimo Onofri, Op. cit., p. 1375.