Il progetto Fuori dal mazzo, inaugurato a Ragusa il 30 aprile all'interno del laboratorio grafico Copystudio e coadiuvato dal Center of Contemporary Arts di Modica, nasce dall'incontro e dalla collaborazione fra il poeta Fernando Lena e gli artisti Carlo Scribano ed Enrico Gisana. L'esposizione raggruppa dodici tavole – quattro per ognuna delle tre categorie figurative tradizionalmente rappresentate nelle carte da gioco – e altrettanti brani poetici dedicati a «Donne, Cavalieri e Re».
A differenza di quanto potrebbe far credere questa presentazione, breve ma necessaria, non siamo di fronte a un consueto processo di accostamento fra arti visive e letteratura. I versi impressi a margine delle tavole non possiedono alcuna fine didascalico, non intendono spiegare o commentare l'immagine, né si prefiggono l'innesco di un qualsivoglia processo ermeneutico nell'osservatore. Dall'altro lato, analogamente, i dodici volti che compongono questa serie non rimandano in alcun modo al testo, non lo compendiano, non lo citano, né tanto meno lo revisionano o lo ricontestualizzano. Nessuno dei due gradi espressivi presi qui in esame, la parola e il segno grafico, può dirsi fonte o scaturigine dell'altro, così come non può emergere alcun rapporto che faccia dell'immagine un eventuale significante del testo o una sua possibile appendice iconologica.
Lontano dall'artificio retorico, questa insistenza apofatica ha il solo scopo di chiarire preliminarmente quanto possa risultare improduttivo o persino inattuabile un tentativo di reperimento del creato e del reperito. Testo e immagine sono in questo caso equidistanti, hanno valore in se stessi, traggono forza dalle proprie singole specificità, dalle loro particolari declinazioni semantiche, dalla propria cifra stilistica. Se da questa giustapposizione può risultare un incremento di leggibilità, esso va ricercato semmai nel contrasto, nella tensione dialettica. Nondimeno, il cortocircuito che se ne ricava – giova sottolinearlo – non crea inconciliabilità, poiché lo spazio che separa questi due poli non ammette lo stridore dell'antitesi o la discordanza dell'ossimoro. Lo scontro formale, invece, dona reciproca profondità ai due modi del ritrarre, il visuale di Carlo ed Enrico e il poetico di Fernando, ponendosi come autentica condicio sine qua non del loro progetto.
Nei versi di quest'ultimo pare quasi di sentire un riverbero sartriano, un'eco implicita che prova a ricordarci che «corriamo verso noi stessi, e per questo siamo l'essere che non può mai raggiungersi» [1]. Da ognuno dei personaggi delle carte da gioco nasce un racconto in versi, una microstoria del disagio, dell'alterità, dell'inadeguatezza, al centro della quale troviamo sempre e comunque l'uomo, l'uomo post-moderno nella sua nudità esistenziale, l'uomo esaminato con spietata lucidità e con filantropica tenerezza. Ma non potrebbe essere diversamente: «La poesia in atto», avvertiva parecchi anni or sono uno scrittore scomparso di recente, «è una continua ricerca del mito del proprio tempo. Praticando la poesia, il poeta si conosce meglio e conoscendosi conosce meglio il proprio tempo. Il modo di fare poesia per un poeta è il suo solo modo di fare la rivoluzione: solo così la responsabilità di quanto scrive si traduce in impegno» [2].
È quindi la dinamica antropocentrica a muovere questi testi, a proiettarli oltre le sponde dell'ideologia pur senza escluderli dalla partecipazione civile. Vengono a galla tematiche importanti, attualissime, ma depurate dal falso moralismo dei media o dal narcisismo viscido dei rotocalchi: «Ormai la sua è una vita un po’ febbrile: / da quando i suoi genitori hanno scoperto / che ama solo donne / è diventata un caso di contagio... / L’isola ahimè è inquieta alle maldicenze / e un bacio tra due rossetti / non lascia opzioni alla valigia» [3].
Il linguaggio oscilla incessantemente fra il tenero e il corrosivo, è un gergo caustico e insieme lieve, in bilico tra la precisa asciuttezza dell'analisi e la policromia della metafora. Il sottotitolo che accompagna ognuna delle specifiche designazioni (Donna di denari. Un inverno da escort, Cavaliere di coppe. Morte annunciata di un barista, Re di bastoni. L'amore infetto di un padre, etc.) non fa che aumentare il tasso di realtà o credibilità delle situazioni tracciate e rin-tracciate dal verso. Sono istantanee che arrestano l'effimero nell'eternità della parola, nella persistenza dell'immagine che la parola sa evocare. E poco importa, da questo punto di vista, che le prime otto siano dedicate ad altrettanti personaggi, e le ultime quattro diventino invece le rifrazioni o le sfaccettature di un'unica figura, di un protagonista sul quale aleggia lo spettro poetico del «tu», di un referente paterno la cui epifania si rende subito palese: «La primavera è un passo / di quelli che mi spingevi a fare / affinché imparassi un po’ d’equilibrio: / ma io cado ancora adesso / e questo tu lo sai» [4]. La poesia, infatti, è sempre il grido individuale che sa farsi anche grido di un secolo; è intrecciata al proprio tempo ma contemporaneamente se ne allontana; è l'espressione di un determinato periodo storico e delle sue contraddizioni, ma riesce a superarlo per diventare testimonianza sia del singolo che del destino dell'uomo, per imporsi come legittimazione delle sue ansie, delle sue lotte, delle sue illusioni, dei suoi vincoli e dei suoi fraintendimenti.
Osservando le dodici tavole risulta poi evidente lo sforzo dei due artisti nel voler raggiungere per quanto possibile «un linguaggio non figurativo e privo di contatto con la rappresentazione della realtà» [5]. La maschera normografica impone essenzialità a ogni singolo tratto, amplificandone il potenziale icastico, mentre le particolari strategie cromatiche, evidenziate da tonalità che rimandano alla violenza del neon, riescono a imprimere ai volti un'immediatezza eidetica e polifunzionale.
Rispetto a cosa?, ci si potrebbe giustamente chiedere. La risposta sta tutta nella scelta iconica – ma potremmo anche definirla comunicativa – che ha il carattere e il sapore della sfida: da un lato la rinuncia al “beneficio” della fisiognomica e del simbolo espressivo comunemente inteso, vale a dire di quelle istanze grazie alle quali dovrebbe apparire un ritratto per fornire indicazioni esaurienti sui requisiti globali del soggetto rappresentato; dall'altro lato il riscatto dello stencil dalla fredda reiterazione urbana, il ritorno alla fucina dell'artista attraverso il fascino della matrice e delle sue finite o infinite varianti. Ed ecco che la dislocazione di una tecnica decorativa tanto consolidata nell'immaginario collettivo, unitamente a una sorta di riappropriazione dell'hic et nunc dell'opera d'arte (proprio nell'epoca che più di ogni altra sta abusando della sua riproducibilità tecnica [6]), diventa un gesto di ribellione, di contestazione, di insofferenza verso gli schemi e i modelli passivamente accettati.
La tattica è in pieno accordo con l'allusività del titolo e con il suo potenziale allegorico. È infatti scontato che dentro il mazzo debbano vigere delle norme, le cosiddette regole del gioco. Ma essere dentro al mazzo può significare anche la placida e passiva accettazione delle norme di comportamento fissate per consuetudine; oppure, scavando più a fondo, stare nel mazzo può diventare anche la spersonalizzazione, il rifugio nell'anonimato, il timore di pensare in proprio, la tendenza a convergere verso il sistema dominante delle grandi rappresentazioni collettive. Essere fuori dal mazzo, al contrario, può diventare allegoria del non riuscire a uniformarsi a queste regole, del sentirsi diversi, o dell'essere qualificati tali, come nel caso della saffica Donna di bastoni citata in precedenza. A questo punto, tuttavia, non possiamo escludere nessuna eventualità esegetica, nemmeno quella più romantica: l'allegoria del non aver ceduto alla seduzione dell'adeguamento, del non aver accettato di annullare la propria singolarità nella massa, dello svincolarsi dal mazzo, dell'esserne rimasti fuori a bella posta.
Note:
[1] Jean-Paul Sartre, L'Être et le Néant (1943), tr. it. L'Essere e il Nulla, Milano, 1968, cit. p. 262.
[2] Nelo Risi, Hai mai scritto un poema che duri?, in La Fiera Letteraria, n. 49, 7 dicembre 1967.
[3] Cfr. Donna di bastoni: Il grido saffico dei manganelli.
[4] Cfr. Re di bastoni: l'amore infetto di un padre.
[5] Francesco Lucifora, Prefazione (all'interno del volume che, sotto il medesimo titolo dell'esposizione, ne raccoglie il materiale grafico e testuale), Ragusa, 2016, cit. p. 7.
[ 6] Il riferimento, evidente, è a Walter Benjamin.