Lucerna, festival d’estate. Il dilemma è sempre stato: dove mi metto per assistere alla prova generale del concerto diretto da Claudio Abbado, concerto che poi rivedrò altre due volte? Seduti nei posti davanti all’orchestra si vede il maestro in faccia e le espressioni di quel volto raccontano la sinfonia, la spiegano in ogni palpito, oltre il suono. L’effetto raddoppia. Ma l’acustica, l’arrivo delle note, magnifiche, nell’ultima galleria, il Paradiso nel gergo degli affezionati, come rinunciarci?
Alla fine ci si metteva davanti al maestro per gioire e patire con lui alla prova generale. Sapendo che poi in due serate ancora si sarebbe riascoltato il programma, le sinfonie di Mahler, di Bruckner, in Paradiso, in un’altra delle gallerie o per i più facoltosi e mondani in platea, ovunque travolti dalla grandiosità dell’orchestra, affascinati dalle braccia di Abbado, ali di eleganza e precisione. Quella precisione nata dall’approfondimento più fondo, dalla concentrazione totale che servono al genio per librarsi lontano, a quel punto nella libertà cosmica. Il suo famoso braccio sinistro…
Dopo le prove e dopo i concerti le lacrime scorrevano copiose anche su visi insospettabili e inumidivano perfino lo sguardo di gente piuttosto freddina. Non per un vezzo da pubblico eletto, ma per uno scuotimento interiore, una tempesta, causati da un’esecuzione che verrebbe voglia di definire, con spericolatezza, soprannaturale. Sì, meglio fermarsi subito e non provare a descriverla: si rischia di non fare centro, inciampando maldestri in tutte le retoriche del creato.
Di solito si piangeva con lui, per la commozione, dal 20 gennaio si piange senza di lui, per la perdita. L’atmosfera all’edizione appena conclusa del Festival di Lucerna, fondato nel 1938 da Arturo Toscanini che si rifiutò di dirigere in terre naziste ma cercava un luogo che fosse adatto alla musicalità tedesca, e rinnovato da Claudio Abbado nell’ultimo decennio, era infatti decisamente strana. Siccome non sarebbe stato possibile sopportare l’assenza di Claudio, così voleva che lo si chiamasse, bisognava immaginare di essere a un altro festival. Un festival bello, interessante, di classe che si svolgeva nell’auditorium disegnato da Jean Nouvel, affacciato sul Lago dei Quattro Cantoni. Con gli zampilli alti e gioiosi della fontana di fronte all’ingresso, la trovata dell’albergo Schweizerhof, lussuoso ma d’abitudine un po’ rigido, di illuminare ogni finestra di un colore diverso e trasformarsi in un palazzo fiabesco, con il carrettino dei gelati vecchio stile.
In quest’altro festival di Lucerna, il lettone Andris Nelsons, allievo pieno di bravura di quella meraviglia di Mariss Jansons, soprannominato il Padreterno, ha diretto i concerti che sarebbero stati di Claudio, con l’atteggiamento di chi è onorato dal compito e non si pone in primo piano, ma senza false titubanze. Maurizio Pollini ha posato le sue mani sul pianoforte e sul cuore degli spettatori. Molti Abbadiani itineranti, soci del circolo nato per seguire il maestro, sono rimasti a casa. Pochissimi si sono concessi qualche posa sepolcrale un po’ troppo insistita a scapito della spontaneità: “Ormai che cosa c’è da ascoltare…”. I quotidiani italiani che nelle estati precedenti sparivano dai chioschi lucernesi giacevano sugli espositori fino al tardo pomeriggio. “E chissà perché Claudio non ha mai fatto a Lucerna l’ottava sinfonia di Mahler”.
Per l’attore Bruno Ganz Abbado era “l’incarnazione dell’aristocratico italiano con in più una riservatezza rara, una personale reticenza”. Si può dire che la sua era una raggiungibile irraggiungibilità. Perché si faceva i fatti suoi, come galleggiando in una navicella di musica, ma se parlava era cordiale, sorridente. Voleva porgere la musica a tutti e “realizzare una magia” come diceva lui, la magia che aveva conosciuto bambino ascoltando il notturni di Debussy. Lo si poteva chiamare confidenzialmente Claudio, ma in realtà l’unico luogo nel quale era davvero vicino era il podio. E siccome alla fine della musica ordinava il silenzio prima degli applausi, torrenziali e ai quali teneva tanto, non proprio certi che fosse il caso di scrivere questo articolo, siamo certi che ora sia il momento di tacere.