Siamo obbligati dalle circostanze a chiedere in prestito a quel genio di Ernst Lubitsch l’espressione che da decenni definisce la sua arte nel cinema: The Lubitsch touch, il tocco di Lubitsch.
Maestro Lubitsch, autore di film sommi, possiamo dire il tocco di Vargas? Non perché il tocco di Vargas assomigli al suo, quella miscela di raffinatezza, leggerezza, acume, ironia, spregiudicatezza erotica, anzi, Enrique Vargas, colombiano, anche se fa il regista, non c’entra proprio niente con lei, si interessa di tutt’altro. Ma il tocco ce l’ha. Intanto alla lettera perché mette in scena un teatro sensoriale dove gli attori toccano gli spettatori-viaggiatori che, a loro volta, toccano gli attori-guide, poi perché può affrontare qualunque tema senza scadimenti o compiacimento. Il sesso senza l’occhio del guardone, il sentimento senza sdolcinature, la morte senza gusto del macabro.
Nell’ultima opera (in prima italiana al Funaro Centro culturale Pistoia dopo una tournée in Giappone) Piccoli esercizi per il buon morire, catafalchi vengono spinti nella penombra, fra il pubblico, sotto un “cielo” di camiciole penzolanti dal soffitto che contengono appunti scritti nell’immaginario ultimo giorno di vita dagli spettatori precedenti. E quando il lenzuolo viene sollevato, il defunto è un invitante banchetto: una gran pagnotta la testa, due peperoni i piedi e un corpo di ciotole di pomodorini, ravanelli, fettine di dolce. Si mangia, si brinda, sul catafalco-desco e non si è cannibali né necrofili piuttosto si assapora la vita e si tenta di accettare la sua conclusione.
Vargas accoglie il pubblico nel cortile del Funaro con sandali francescani e occhi dorati e lo invita a scegliere una porta: quella che conduce agli esercizi per il buon morire e quella per gli esercizi del buon vivere. I più scelgono la prima, forse pensando che gli esercizi per il buon morire includano quelli per il buon vivere e non viceversa. Magari è un’idea sbagliata. All’uscita del percorso, Vargas è sempre in giro, una donna lo bacia per l’entusiasmo. Gli chiede una sorta di permesso prima di accostargli le labbra alle guance: “Visto che siamo los Sentidos…” e lui non è dispiaciuto.
Patrizia Menichelli, fiorentina, in principio scenografa e costumista, abituata agli incroci fra arte e teatro grazie alla collaborazione con Bruno Munari, sa bene che imbattersi nell’uomo di Bogotà può cambiare la vita: a lei è successo nel 1996, ad Arcidosso, quando la sua amica Filomena la portò a vedere Oracoli, capolavoro di Vargas. Filomena era convinta che i due dovevano incontrarsi. Patrizia, ricercatrice di metodologie sensoriali applicate all’arte e al teatro, collabora con Vargas ormai da diciotto anni: è coordinatrice artistica del Teatro de los Sentidos che dal 2003 ha sede stabile a Barcellona, prima di allora i componenti della compagnia si incontravano solo in tournée. Racconta: “Dal nucleo di colombiani che affiancarono Vargas negli anni Ottanta, ora si è costituita una grande base europea: italiani, tanti, francesi, danesi, spagnoli. La compagnia è un gruppo di ricerca permanente alle prese con creazione e formazione. Siamo in molti ed è importante la comunicazione fra noi. Quando andiamo da una città all’altra, per esempio, dobbiamo recuperare la memoria della tappa precedente. Ci chiediamo: come è andata? Leggiamo con molta attenzione i commenti degli spettatori. Enrique ha poi creato una scuola, siamo in contatto con molte università e teniamo laboratori, anche mirati: per maestri, terapeuti, architetti, disegnatori”. Essere coordinatrice artistica del Teatro de los Sentidos include di tutto, anche l’indefinibile, forse l’aspetto più notevole del suo impegno è quello di “traduttrice”: “Enrique dà il taglio filosofico dello spettacolo, una visione alla quale bisogna dare una direzione, un andamento. Il mio lavoro è soprattutto la traduzione di un aspetto filosofico nella corporeità”.
Negli ultimi tempi questa traduzione è particolarmente ardua: la compagnia, che ha esplorato con i primi spettacoli, tutti con impostazione di labirinto, ovvero percorsi per un solo spettatore alla volta, la poetica dell’intimità - in Oracoli, per esempio, a ogni tappa si trova un attore che impersona uno degli arcani maggiori dei Tarocchi e Patrizia era la Giustizia - ora è decisa a estenderla a una collettività. In Piccoli esercizi per il buon morire gli spettatori-viaggiatori sono cinquantaquattro a performance. Questo vuol dire che, alla relazione attore-spettatore, nella quale il primo, oltre a incarnare un personaggio, facendo un lavoro attoriale classico, deve tenere conto delle reazioni del secondo che può essere fragile per la timidezza interiore o per l’esaltazione, si aggiunge la relazione fra spettatore e spettatore. Intimità collettiva?
Non basta: “Per la prima volta affrontiamo un testo. Il 13 settembre al Republique di Copenaghen debuttiamo con Cuore di tenebra. Ce l’hanno chiesto perché Joseph Conrad è amatissimo in Danimarca - spiega Patrizia -. Lo affrontiamo con molto interesse, si preannuncia un cambio per trattare temi che non avevamo mai trattato: l’orrore, la malvagità, il colonialismo. Come si fa a rendere l’orrore?”. Qualche idea c’è già, naturalmente, ma nei prossimi due mesi la compagnia si troverà a rispondere a parecchie domande. A Firenze Patrizia ritorna sempre, la sua non è certo una città che si può accantonare, e ha fondato l’associazione Arcadia Ars In che si concentra soprattutto sulla ricerca interdisciplinare, sull’intreccio dei linguaggi e, in particolare, cura progetti formativi, educativi e di performance tra teatro sensoriale e arte. Patrizia la permea con la sua cultura antica, medieval-rinascimentale arricchita dalla lunga frequentazione con Vargas che viene da un altro mondo e le ha spiegato, non da una cattedra, ma con la sua essenza che l’Europa non è sempre il centro del mondo come pensiamo noi.