Cina e Stati Uniti d’America. Così diversi, così simili. Due sistemi politico-sociali impostati su due opposte linee di pensiero rispetto all’intervento statalista nel mercato. Ognuno però con le sue forti contraddizioni. L’elefante cinese sconfessando l’eredità comunista insegue quello americano sulla più sfrenata idea di capitalismo. Se infatti intendiamo per capitalismo l’idea di un processo orientato al rivolgimento tecnologico attraverso fasi in cui emergono strutture nuove e quelle obsolete vengono distrutte, ci accorgiamo di come questa definizione possa coniugarsi con il progresso cinese.
La Cina mette apprensione come quell’onda che si vede crescere sempre di più ma della quale non si conosce la portata. Non se ne immaginano gli effetti. Quanta sarà la porzione di spiaggia che con il tempo potrà inglobare nel mare rimane un punto interrogativo che lascia intimiditi. Un miliardo e quattro cento milioni di persone che aspettano venga riconosciuto loro il diritto di partecipare allo stesso banchetto del quale nei decenni passati l’Occidente con gli Usa a capotavola è stato il grande commensale. La crescita cinese è ancora in una fase in cui è legata a cordone ombelicale al know how straniero: Giappone, Corea, Usa ed Europa sono ancora i modelli di riferimento in tutti i settori di business e secondo le stime più ottimistiche ci vorranno dai 30 ai 50 anni perché possa davvero inziare a camminare da sola. Visti da qui, dall’Italia, di chi dovremmo però aver timore?
La misura della ricchezza di un Paese fa fede a un indicatore principe: il prodotto interno lordo pro capite. Sebbene la Cina sia un Paese in cui vivono persone estremamente ricche, il prodotto interno lordo pro capite è ancora fermo a 6 mila dollari l'anno, circa nove volte inferiore a quello americano. Militarmente la bandiera a stelle e strisce ha imposto la sua egida in tutto il mondo. Ha alleati dappertutto, dall’Europa al Giappone. Per natura e per storia continua a voler imporre il proprio modello socio-economico come l’unico veicolo di ideali democratici. La Cina, ora come nel passato, non ha mai avuto mire espansionistiche se si esclude un nascente sentimento di revanche sull’odiato vicino giapponese.
Continua a prevalere lo stereotipo di un mondo minacciato da quell’onda gialla. Eppure un recente sondaggio condotto in Europa, un sondaggio pubblico, citato anche dalla Bbc racconta una percezione diversa. Gli Usa sono ancora visti come pericolo numero uno in un possible scenario di guerra secondo il 70% degli intervistati, seguiti molto lontano da Pakistan, India e infine Cina con un mero 10%. La Cina, almeno a medio termine, non ha alcun interesse in un conflitto, perché sotto il profilo militare sconta decenni di svantaggio rispetto agli Stati Uniti, ma anche perché una guerra mondiale oggi non potrebbe veramente essere vinta da nessuno e non porterebbe vantaggi all’economia delle due superpotenze.
Se tutto procederà normalmente, se la Cina continuerà a crescere, i conflitti futuri verranno combattuti sulla base della competizione economica. La Cina pur diventando uno dei maggiori player sullo scacchiere internazionale continuerà a usare gli strumenti che le sono più congegnali, quelli pacifici. Ma se la crescita cinese si dovesse fermare sarà difficile per il governo di Pechino alimentare nella popolazione la speranza di poter realizzare i propri sogni e la guerra potrebbe diventare un'opzione. Non preoccupatevi quindi se quell’onda cresce: preoccupatevi della possibilità che smetta di crescere.