Un’impresa come la nostra non può avere successo in un’economia in declino, in un ambiente degradato o in un contesto in cui il sistema scolastico non funziona. Dobbiamo assumerci la responsabilità di tutto questo.

Questa dichiarazione di Marc Benioff, CEO di Salesforce, ben evidenzia la crescente consapevolezza che si è diffusa in questi ultimi anni, di come le imprese possano essere un importante fattore dello sviluppo della società. La fase più recente dell’evoluzione dell’impresa consiste nell’affermare le sue responsabilità sociali, rendendosi conto che il purpose sociale è importante quanto il purpose economico: da qui nasce il paradigma del brand activism, portatore di implicazioni molto profonde, sia per le imprese stesse che per la società in cui operano.

Brand activism: definizione e caratteristiche

Il brand activism consiste negli sforzi dell’impresa per promuovere, impedire o influenzare riforme o stati di inerzia sociali, politici, economici e/o ambientali con il fine di promuovere o impedire miglioramenti della società.

Questa definizione operativa di brand activism è tratta da uno dei testi fondamentali in merito, quello di Philip Kotler e Christian Sarkar, intitolato Brand activism. Dal purpose all’azione. Basandosi su questa prima definizione teorica, il brand activism può essere definito come una naturale evoluzione della Corporate Social Responsability (CSR), che include questioni come i diritti umani, la sicurezza e la salute, la governance organizzativa e gli aspetti ambientali. Generalmente, si tratta di tematiche che presentano un basso livello di controversia ed in merito alle quali l’opinione pubblica è abbastanza omogenea, e di conseguenza è difficile che risultino divisive.

Il brand activism si focalizza invece su cause sociali e problemi che spesso si trovano al centro di accesi dibattiti pubblici, come l’uguaglianza di genere e il razzismo, e quindi prendere una determinata posizione a riguardo può determinare anche l’assunzione di rischi da parte dell’impresa stessa. In questa dimensione, non conta tanto quello che si dice, ma soprattutto quello che si fa. Le imprese che adottano l’attivismo come principio cardine “non vendono più soltanto beni, ma grandi idee” riprendendo l’affermazione di Jay Curley, responsabile globale del marketing integrato di Ben &Jerry’s, che può essere considerata una delle aziende che con maggiore convinzione ha sposato il concetto del brand activism. Ed è proprio Curley che, partendo dalle 4 P del marketing tradizionale, delinea le 6 P che caratterizzano invece il brand activism:

  • Purpose: i valori a cui l’azienda si ispira devono essere chiari e ben radicati. Si passa così da imprese marketing-driven o corporate-driven ad imprese value-driven;
  • Politiche: si devono sostenere iniziative politiche con un impatto misurabile, affrontando i problemi in maniera trasparente;
  • Persone: tutte le parti in causa devono credere fortemente nelle cause e nei movimenti che intendono sostenere;
  • Potere: le aziende devono sfruttare la loro capacità di influenzare l’opinione pubblica, per sostenere cause ispirate al bene comune e non solo per aumentare i propri profitti;
  • Publishing: è necessario usa re uno storytelling continuo, per coinvolgere i consumatori e farli diventare dei brand activist. Bisogna fare riferimento a un piano ben ponderato delle narrazioni del marchio, che sappiano rafforzare la logica alla base della presa di posizione operata dallo stesso;
  • Pop: è importante scegliere il giusto tone of voice per comunicare il sostegno ad una determinata causa e per farsi notare all’interno dell’arena dei media.

Gli obiettivi del brand activism

Uno dei primi obiettivi che si pongono i brand “progressisti” è quello di operare per conseguire il bene comune; un concetto certamente molto ampio, che nasce più di duemila anni fa nelle opere di Platone, Aristotele e Cicerone. Dal punto di vista aziendale, esso fa riferimento soprattutto al movimento chiamato l’Economia del bene comune, nato nel 2010 in Austria grazie a Christian Felber e ad un gruppo di imprenditori illuminati, che posero il benessere delle persone e del Pianeta come obiettivo primario di qualsiasi azione economica.

Il secondo obiettivo è sicuramente quello della customer loyalty, ovvero la fidelizzazione del cliente, che rimane entusiasta della marca e ne promuove la diffusione parlando bene dell’impresa e dei suoi prodotti. Si instaura così un rapporto molto forte tra il brand e il consumatore, basato sulla fiducia che quest’ultimo prova nei confronti di un brand socialmente impegnato, anche perché sono sempre più le persone che si aspettano che siano le imprese a porsi come agenti del cambiamento.

Su questo punto, emerge anche una differenziazione anagrafica: le generazioni più giovani, come i Millennials e Gen Z, sono anche coloro che si sentono maggiormente rappresentati dalle aziende che prendono posizione su questioni di rilevanza sociale, e che sono anche disposti a spendere di più per i prodotti dei brand “progressisti”.

Il terzo obiettivo, sicuramente non meno importante, è quello della reputazione, “l’architrave” della realtà che viviamo e nella quale lavoriamo, che per le aziende è diventata sempre di più il principale asset economico immateriale. A questo proposito, si parla di “economia reputazionale”, per evidenziare la stretta relazione che intercorre tra la capacità di un brand di costruirsi una buona reputazione e il suo valore di mercato.

Come titolo di questo articolo, ho scelto la frase “brand activism is here to stay” nella convinzione che il brand activism non sia solo una moda passeggera, ma sia invece un nuovo modo di concepire l’impresa destinato a diffondersi sempre di più. Molte imprese stanno cambiando il loro punto di vista, diventando consapevoli che devono conquistare anche il cuore e la sensibilità dei loro clienti, oltre alla loro mente. Si può concludere proprio con le parole di Philip Kotler in merito:

Desideriamo creare un mondo in cui le persone siano sane e sicure, tutelate finanziariamente, attive nella protezione dell’ambiente e capaci di dare un contributo alle loro comunità. Lo scopo ultimo è il benessere dell’umanità e la civiltà.