Anche se in via di estinzione, ci sono nicchie di lavori che possono resistere al tempo. Una sfida con il tempo e con le dinamiche economiche attuali, anche quelle delle nuove regole ecologiche.
Ci sono mestieri che stanno scomparendo, eppure, ancora esistono. Un po’ per sfida, un po' per attaccamento al territorio e alla propria identità, che poi, possono anche essere un tutt'uno, ma con dinamiche sociali completamente differenti.
Quello del carbonaio, un tempo era un mestiere vero e proprio, anche se per alcuni poteva apportare un reddito in più nelle finanze di casa. Parliamo di un’economia agricola, e soprattutto montana, in luoghi dove regna il bosco ceduo e spesso resta difficile raggiungere con i moderni mezzi agricoli.
Ma facciamo un passo alla volta, un racconto che parte da lontano, da una tradizione di famiglia, che parla di generazioni e duro lavoro, che parla oggi, di ricordi e legami di sangue, portati avanti attraverso il lavoro.
Fare il carbonaio è spesso una tradizione di famiglia, uno di quei mestieri che non si possono imparare sui banchi di scuola, ma uscendo fuori con il nonno, il babbo, che ti insegnano come si fa. E poi, non ne esci più, ti entra nel sangue, e resta come un rumore sordo di malinconia, quando scopri che non si può portare avanti. Un mestiere che non si sceglie per necessità economica, ma che spesso diventa un piacere legato ai ricordi, al territorio che si vive, alla natura, a quei ritmi lenti, così lenti, che effettivamente, puoi viverci, ma non in senso economico, ma vivere della natura. Un ritorno ad essa, agli imprevisti, al passo lento, che diventa un piacere.
Il lavoro è ancora duro, ora non più soltanto tutto soltanto manuale; un tempo c’era solo l’aiuto della forza di trasporto dei muli, ancora siamo negli anni Cinquanta, ma è da qui che si assiste ad un sospiro di sollievo, con l'avvento dei trattori, che alleggeriscono un po’ le fatiche, anche se ancora possono essere necessari nelle macchie più fitte, dove il legnarolo non riesce ad addentrarci con i mezzi.
Oreste Angeloni è uno degli ultimi carbonai che sopravvivono e lavorano nel in un territorio montano, in quella verde Umbria, fatta di boschi di querce, carpini, roverelle, che in autunno e inverno si spogliano e lasciano un paesaggio quasi desolato; montagne dove ancora nevica. Oreste fa il carbonio da quando era un ragazzo e aveva 17 anni, eppure è proprio da sempre che usciva con il babbo e i vecchi, guardava e aiutava a raccogliere la legna, a trasportarla. Un modo antico per imparare un’arte delicata e ancora negli anni Cinquanta molto richiesta.
Le mani sono annerite dal fumo, dai carboni che sposta, tozze di tanta fatica, perché la legna è pesante. Il taglio del bosco spesso avveniva tutto manualmente, con l'accetta e la legna veniva trasportata a dorso d'asino e con il “cavallo” una sorta di cavalletto portato a spalla, che poteva contenere tra i 40 e i 50 chili di legna. C’era quella venduta e quella che invece per taglio e pezzatura era destinata a diventare carbone.
Questa era poi sistemata in una piazzola, posizionata in una parte più comoda del bosco e abbastanza pianeggiante, veniva così sistemato quello che veniva chiamato il cottino, la catasta di legna a forma di cupola che andava poi ricoperta di terra che, così, bruciava in assenza di ossigeno. Per fare questo tipo di carbone tradizionale, la tecnica è sempre la stessa, vengono ancora usate le essenze più pregiate del bosco come il cerro, il faggio, il carpine e il leccio, un po’ per la loro resistenza e durata, un po’ anche per il loro aroma particolarmente adatto alle cotture alle griglie che inoltre, mantengono molto bene il calore durante la cottura dei cibi. Essenze naturali, in aree quasi incontaminate.
Oreste ricorda che quando era giovane, vi erano molti ragazzi che aiutavano i più anziani nel lavoro, e spesso senza percepire un soldo; almeno quattro o cinque persone per volta lavoravano nel taglio del bosco, nella preparazione della piazza e in quella del cottino. Una comunità intera era responsabile per tutti.
Ecco, quindi, che l'esperienza tramandata da generazioni, ha fatto sì che i carbonai fossero ricercati anche fuori dal nostro comune e fuori dalla regione, e fare il carbonaio diventava una vera e propria fonte di reddito e riusciva a portare un po’ di vantaggio economico nelle tasche personali e della famiglia. Infatti, Oreste, un po’ per dovere e un po’ per scelta, si ritrova a lavorare come carbonaio già all'età di venti anni in Maremma, nel periodo invernale e in primavera in Abruzzo; si seguivano le stagioni e le migliori condizioni di lavoro, assecondando la natura e il territorio.
Le condizioni di lavoro erano pesanti e la sera si andava a letto stanchi e sempre molto presto. La baracca dove si dormiva era spesso fatta di legno, ricoperta di carta vetrata, mentre il letto era di legni e frasche; in mezzo ai letti, il fuoco per scaldarsi, mangiando polenta e fagioli con il lardo.
E Oreste ci tiene a precisare che era il lardo buono.
Sono ricordi di una vita dura, eppure Oreste non si è scoraggiato e ha continuato negli anni ad essere un carbonaio, ancora oggi lo continua, tra i boschi e le macchie di casa sua, un po’ per piacere, un po' per non dimenticare. Un po’, forse, per rendere omaggio alla memoria che sta scomparendo.
Infatti, tra i lavori quotidiani della campagna, gli animali dell’aia, continua a produrre il carbone.
Oggi non se ne fa più un grande uso. Così, ne faccio poco, il necessario per me e la mia famiglia e qualche cosa da vendere un po’ in giro, ma poca cosa. È più comodo quello nei sacchetti, che non sai da dove proviene e nemmeno come lo hanno fatto; o con cosa. È più veloce acquistare quello nei sacchetti già confezionati…
Si ferma a riflettere o forse non vorrebbe continuare la sua frase amara. Poi afferma Oreste:
Sì, ma chissà che cosa c'è dentro. Non è, poi, la stessa cosa. Oggi si fa solo una cotta all'anno, all'incirca tre o quattro quintali.
Il carbone fatto in modo tradizionale non si cerca più. Effettivamente, per averlo devi andare dal carbonaio. Oreste conserva ancora i vecchi strumenti, quelli con i quali continua il lavoro. Prepara la piazza, con i passi misura il raggio e con un legno disegna il cerchio della carbonaia.
Dieci passi è una bella “carbonarola”.
La sua vecchia unità di misura, data dall’esperienza dei fatti, e dei passi. Dopo di che compone la legna, con sapienza e pazienza incastra i legni: una cupola, con un foro in cima, il tutto viene ricoperto di terra, gettato il fuoco all’interno e ricoperto il foro con una lastra, in modo che tutto bruci senza ossigeno, a un andamento lento lento, che quasi nemmeno fa il fumo fuori. È molto bello vedere come brucia la carbonaia, il fumo inizia ad uscire partendo dal basso, pian pianino, per arrivare via via, in cima. È a questo punto che si rimbocca e si fa arde nuovamente. Questa volta il fumo inizia a muoversi nel senso opposto, fino a tornare in fondo e toccare terra. È un lavoro molto lungo e complicato che può anche durare diversi giorni, e bisogna sempre fare molta attenzione. Dopo tutto, con il fuoco non è che si scherza.
Ma il piacere è anche molto più antico, fatto di un contatto con la natura, con le stagioni, e con i passi nei boschi, tra gli alberi e i luoghi che impari a riconoscere. Notti fatte anche al freddo a controllare che la carbonaia non abbia problemi. piccoli segreti, piccoli piaceri unici.
Oggi, inoltre, oltre a quello che detta la natura, bisogna sempre seguire le direttive della forestale, ora comando Carabinieri per la Tutela Forestale, che sono molto più pignoli rispetto a un tempo.
Nella zona montuosa dell’Umbria, a nord, dove il bosco è fitto di essenze ed è ceduo, sono rimasti insieme a lui altri due o tre vecchi, sparsi in un’area vasta, che continuano questo antico mestiere. Eppure, Oreste si dice ottimista perché da qualche tempo un giovane di 35 anni della zona lo aiuta nel lavoro e segue Angeloni ogni volta che può dopo il lavoro:
Io lo ammiro, chissà perché lo sceglie, forse per curiosità o per passione, o per piacere. Io sono contento perché questo porta a non dimenticare un lavoro che un tempo facevano un po’ tutti. Forse un giorno, spero, che anche lui lo farà come lavoro.
Se non altro, ci sarà qualcuno che continuerà a tramandare un antico sapere.