Se si salgono i gradoni della cavea bianca destinata agli spettacoli all’aperto, si arriva in cima all’auditorium di Firenze e, da lassù, si capisce che quella costruzione voluta per i 150 dell’Unità d’Italia e, come tutte le grandi opere patrie, afflitta da ritardi, scarsezza di soldi e scandali giudiziari, ma per la media nazionale in fondo non troppo, è davvero importante. Da lassù si vede Firenze, la magnifica, inarrivabile Firenze pensata dai geni antichi, e la Firenze periferica, tutt’altro che magnifica, ma degna. Da lassù si vede che il centro e la periferia in fondo dialogano e formano una città, complice il Parco delle Cascine con le sue fronde verdi a ombreggiare il ricordo di fanciulle ottocentesche con i cappelli di paglia e le corse dei maratoneti contemporanei.
E se il centro e la periferia dialogano si può sperare che il passato glorioso abbia un futuro, anche grazie al potere ineffabile della musica. Ecco, da lassù, verrebbe voglia di gridare a Firenze che la dovrebbe piantare di farsi invadere dalle miriadi di turisti che camminano senza guardare, quelli che potrebbero stare in qualunque altro luogo del mondo con la stessa scomposta inconsapevolezza, rendendo il tragitto Duomo-Signoria-Ponte Vecchio-Piazza Pitti una bolgia dei vivi, e proporre cultura invece che scadenti pizze a taglio, attraendo sì, miriadi di persone, facoltose o squattrinate che siano, ma consapevoli.
Era piacevole sentir parlare con varie cadenze, l’altra sera, 10 maggio, all’inaugurazione del nuovo teatro dell’Opera, e molte lingue straniere. Era simpatico pensare che quelle persone erano arrivate per sentire la musica, e che, probabilmente, il giorno dopo avrebbero dato un saluto alla Venere di Botticelli osservandola sul serio oppure sarebbero andate negli angoli più appartati, nella chiesa di Santa Felicita a vedere la Deposizione del Pontormo, nelle celle del convento di San Marco in raccoglimento davanti al Beato Angelico mistico, al giardino Bardini dai roseti in fiore. Sempre che le signore issate sugli ormai immancabili tacchi quindici-diciotto (sì, come la guerra. La guerra alla leggiadria del portamento) simbolo, come le infinite paninerie e e gelaterie, del disagio contemporaneo, avessero portato con sé anche scarpe da passeggio.
Zubin Mehta ha diretto l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, nella serata di gala per l’inaugurazione dell’auditorium, Opera di Firenze l’hanno chiamato, con una felicità manifesta che lo faceva giovane giovane, ricondotto all’essenza della musica, sgombrata dalla legittima fama, dal successo mondiale di decenni, dalle cittadinanze onorarie, dalle stelle sulla Walk of Fame a Hollywood. Il direttore d’orchestra indiano ama Firenze e un teatro dove il suono arrivasse splendido all’orecchio del pubblico era il suo sogno: il Comunale, memorabile per gli spettacoli che ha ospitato in decenni di edizioni del Festival del Maggio Musicale Fiorentino, non può sembrare bello nemmeno a “mamma sua” e ha un’acustica balorda. Da giugno chiuderà per sempre e, per quanto si odano le lamentazioni di chi gli è affezionato, la musica ne guadagnerà.
“Ogni concerto sinfonico, ogni opera lirica ha un momento speciale: l’inizio - spiega Mehta -. Accade quando si fa silenzio e il direttore dà l’attacco all’orchestra. La sala è avvolta dal suono e quegli “strani segni” sulla partitura diventano musica, emozione. E l’emozione è tanto più grande, quanto migliore è la resa acustica. Nella mia carriera ho diretto nei più grandi teatri antichi e moderni del mondo e posso dire che l’acustica dell’Opera di Firenze è fra le migliori. Tutto ciò è stato possibile perché, contrariamente a quanto spesso accade, i progettisti e gli ingegneri acustici hanno lavorato insieme fin dall’inizio: la forma del teatro, la fossa e i materiali usati per la sala sono stati pensati in funzione del suono, anima della musica”.
Per l’inaugurazione, che giunge in verità dopo altre inaugurazioni avvenute via via che i lavori procedevano, la prima il 21 dicembre del 2011 con Mehta sul podio, seguito due giorni dopo dalla nona sinfonia di Gustav Mahler, dai pianissimi struggenti, diretta da Claudio Abbado, la cui assenza piangeremo sempre, un programma un po’ misto da seratona mondana di quelle che respingono i puristi: il quarto atto dell’Otello verdiano, La valse di Ravel con la coreografia di Davide Bombana, After the rain di Christopher Wheeldon su musica di Arvo Pärt e il primo atto della Tosca. Una serata soddisfacente, però. L’Otello cantato a meraviglia, Alessandra Ferri sublime in After the rain, con un corpo e un viso prosciugati, ormai vicini all’immaterialità, ma dal movimento fluido, sensuale e sconvolgente.
Ad accogliere il pubblico, fuori dall’affascinante edificio progettato da Paolo Desideri-Studio A.B.D.R Roma, i poderosi cavalli rossi che Pier Luigi Pizzi creò nel 1990 per la scenografia della Leggenda della città invisibile di Kitez, all’interno moltissime locandine a raccontare la storia del Maggio. C’erano il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ministri vari, incluso il primo, VIP e sedicenti tali, i NVIP (not very important person). Abiti da sera e gioielli, scollature e rossetti. C’era quel che c’è in una simile occasione. La serata era avvolta dagli echi wagneriani del Tristan und Isolde, opera di apertura del festival, andata in scena nei giorni precedenti e l’indomani al vecchio teatro, diretta da Mehta e allestita dal regista, scenografo, costumista e maestro di luci Stefano Poda, che ha fatto un lavoro straordinario.
Sotto un fiotto di riso che scandisce il passare del tempo, e quindi della vita, nella luce dorata dell’estasi amorosa, nella luce livida dei tradimenti e delle gelosie, nella luce abbagliante della morte celestiale di Isotta, Poda, dalla lunga capigliatura d’artista, ha reso l’atemporalità del dramma esistenziale incarnato nell’amore e, miracolo, non delude fuori dalla scena: accoglie i complimenti con sguardo franco, grato, una stretta di mano autentica, senza il sussiego di chi si approva. E la prossima volta il canto di Tristano e Isotta risuonerà ancora più giusto, all’Opera di Firenze.