A quanti affrontano lunghi viaggi per conoscere le bellezze delle nazioni vicine, da questa pagina si vuol suggerire: Conoscete l'Italia! Conoscete prima le bellezze di casa nostra, tutte quelle splendide cose di cui la Natura con noi è stata tanto prodiga! Quanti si avvicinavano alla Trinacria pensano spesso che Sicilia voglia dire solo Palermo normanna o reminiscenze architettoniche arabe, Valle dei Templi o Taormina, Etna, Mozia o barocco ibleo, e così si privano dell'essenza vera della bellezza dell'Isola, quella della ricchezza paesaggistica dei suoi monti, certo meno fruibili ma non per questo meno affascinanti.
Provare il piacere di un'escursione in campagnola o a dorso di mulo è un'esperienza così inebriante da restare come riferimento mnemonico per la vita. Com'è possibile salire per la Miraglia e dimenticare l'improvviso presentarsi innanzi - magnifico e spesso incappucciato di bianco anche in piena estate, eppure maestoso e terso - del cono vulcanico dell'Etna? E come non restare affascinati dell'incontrastato dominio del faggio e della quercia su quei monti in dolce pendio ove, in un'era ormai remota, il cervo veloce era ospite abituale? O non ricordare il signoreggiante volo dell'aquila reale che spesso lascia il suo nido in cima alla roccia per scendere a valle per procurare a sé e ai suoi aquilotti il necessario per la salvaguardia della specie?
Il silenzio dei Nebrodi! Che danno per chi della terra di Polifemo ne lasci le sponde senza averne provato l'incomparabile sensazione. Che piacere arrancare sul dorso del mulo in un viottolo tra i faggi e annusare l’intenso profumo di un sottobosco di felci, rovi con more grosse come nocciole e foglie macerate mentre sul capo, impassibile e acuta di vista, volteggia la filannera: il gheppio, fisso in cielo a filare la sua filanda in attenta ricerca di preda, mentre le più incredibili corolle sbucano nei posti più impensati.
Chi potrà mai descriverlo? Sono emozioni solo da godere, così come è impossibile descrivere quel che l'animo prova alla visione di un lago a quell'altezza, regno inviolato delle rane che, a cento e a mille, si tuffano nell’acqua dalla sponda mentre pacificamente si stanno crogiolando al sole sino all'arrivo dell'indesiderato violatore della loro quiete; un lago dove malgrado l'altitudine, alligna incredibile il papiro e il giunco raggiunge dimensioni ancestrali. Spettacolo stagionale sono poi gl'isolotti di polygonum amphibium che adornano, con la miriade delle loro infiorescenze rosa sfumate di lilla, una superficie che, negli spazi in cui resta libera dalla flora acquatica, rispecchia limpida e capovolta l'immagine della chioma dei faggi che dalla sponda prorompono sfidando il cielo.
Ed è, in quest'immensa solitudine, unico segno del passaggio dell'uomo, un vecchio casale ottocentesco, la cui struttura architettonica parla subito di paura dell'uomo per i suoi simili: il muro che sui quattro lati guarda la campagna è formato da un'alta e spessa costruzione in pietra viva e calce senza aperture e con i tetti spioventi all'interno verso il cortile, ove una grande cisterna serve a raccogliere le acque piovane, sicurezza per uomini e bestie per tutt’altro che impossibili incursioni di male intenzionati in quella landa ove nel raggio di una decina di chilometri non v'è altro segno di insediamenti. La sua unica apertura all'esterno è un munito portone in legno rinforzato e impalancato che immette nel cortile; sul fondo sono i magazzini e l'alloggio padronale, a sinistra le stalle, mentre a destra sono i locali per contadini e garzoni - due ampi ambienti – che consentono di evitare la promiscuità.
Qui si svolgeva l'intera vita del latifondo: si portava il latte per cagliare ricotte e formaggi, si depositava la lana della tosatura, si confezionava il pane e si preparava il desinare per i partecipanti all’attività agricola e per qualche viandante. E al centro dello stanzone penzolava – chissà se penzola ancora - dal soffitto, agganciato a una robusta catena, un caldaio pieno d'acqua, sempre calda per la fiamma perennemente ardente: a quell'altezza, al calar del sole, il freddo è sempre pungente.
Di sicura invenzione del Santo d'Assisi erano certo i mobili e le suppellettili, solo costituiti da giacigli posti lungo il muro, sospesi a tavole agganciate a liane fissate alle travi del tetto; semplici assi infissi nel muro erano comodi ed utili attaccapanni, né più confortevoli erano i tavoli, solo poggiati su assi incrociate. E a tutta questa scena facevano da quinte i muri e le travi, le tavole del soffitto e le tegole a coppo, tutti parati di nerofumo per l’ardere perenne dei ceppi nel focolare, costituito da un selciato in pietra dura nel bel mezzo del locale.
Questi sono i monti Nebrodi, oggi organizzati in Parco naturale regionale, con un’estensione di circa 85.000 ettari: comprende il territorio di ben 23 comuni ricadenti nelle province di Messina, Enna e Catania (1). L’Ente è finalizzato: alla valorizzazione del sistema suinicolo dei Nebrodi, che pensa alla difesa della Biodiversità Zootecnica come fattore di sviluppo del territorio, in collaborazione con Enti regionali, Istituti universitari, Istituto Superiore di Sanità, Istituto Sperimentale Zootecnico per la Sicilia e altri; il progetto tende alla caratterizzazione geografica della filiera zootecnica del suino nero dei Nebrodi attraverso lo studio di indicatori ambientali, genetici, di salute e benessere, nonché dei suoi caratteri organolettici; al progetto Strade dei sapori dei Nebrodi, formulato dall’Ufficio unico del PIT 33 Nebrodi, che intende promuovere in modo nuovo il territorio e le sue risorse, pensando a una serie di percorsi che siano allo stesso tempo eno-gastronomici e turistico-culturali; alla valorizzazione e all’ampliamento, nel territorio di Galati, dell’area del capriolo: in realtà è più giusto parlare della reintroduzione del quadrupede sui Nebrodi; infatti nei secoli trascorsi il mammifero (νεβρός) era intensamente presente su questi monti e, probabilmente, aveva dato il nome alla catena montuosa, Nèbrodi. I caprioli di questi monti forse appartenevano a una specie autoctona del Meridione d’Italia, detta capriolo italico.
In questo miracolo della natura si ritaglia il suo fascino uno dei luoghi che non possono e non debbono essere ignorati: Galati Mamertino (2) e la bella vallata del Fitalia, sulla quale il paese domina dall'alto dei suoi 850 mt. s.m.; qui ciascuno potrà trovarvi qualcosa che desidera conoscere. Chi stanco del turbinio della vita di tutti i giorni, vuole pace, vada a Galati! I suoi boschi di pini, querce e faggi riportano la serenità anche nell’animo più inquieto; l'ansia, la nevrosi hanno qui il loro antidoto! Da qualche centinaio di metri oltre il paese, dalla bella strada panoramica che conduce alla borgata S. Basilio, si potrà ammirare una delle vallate più belle della Sicilia, che nulla ha da invidiare a quelle elvetiche. Dal colle di Rafa, verso il Nord, lo sguardo spazia verso il Fitàlia e sino al Mare Tirreno con la parata delle isole Eolie nello sfondo, mentre verso i monti gli occhi riposano dinanzi a uno scenario di bellezza incomparabile: una valle immensa, chiusa all'orizzonte dai Monti di Longi, dal Pizzo di Mueli, e dalla vetta del Monte Soro … e poi, tutt'intorno, il grande verde del Bosco di Mangalaviti e prati e rustiche capanne; il trionfo della natura, insomma, ancora vergine e immune, dove la speculazione edilizia può esser solo incubo onirico e inverosimile.
Gli appassionati di caccia, adusi alle lunghe escursioni pedibus calcantibus, con due ore di marcia si troveranno immersi in un mare di solitudine, a diretto contatto con la natura, in mezzo ad una fitta vegetazione, ove non troveranno più purtroppo l'antico re di questi luoghi: il cervo, distrutto dall'insipienza umana, ma troveranno di certo la lepre, il coniglio selvatico, il fagiano, la pernice, che sono ancora abitatori abituali. E chi va alla ricerca di piatti tipici non si faccia gabbare dal sonno, perché a rricotta cu seli , calda calda, può esser gustata solo di buon mattino; l'indirizzo non serve: si potrà trovare ov'è di stanza una mandria di pecore.
Ma anche le salsicce col buon profumo del seme di finocchio selvatico, a supprissata, i frìttuli e altre specialità ottenute dal maiale dal pelo nero, u porcu niuru, tipico della zona, non debbono esser trascurate. Chi inoltre ha la possibilità di recarsi presso un amico galatese in pieno inverno, mentre la neve ha trasformato il paesaggio in un inverosimile presepio, non tralasci di far colazione con i passuluna fritti con pancetta e peperoncino, innaffiando il tutto con il generoso vino locale. Chi, ancora, a Galati vuol andare a riposare, troverà il posto ideale... Il tempo lì s'è quasi fermato, anche se l'apparenza vuol denunziare un adeguamento ai tempi, che in realtà non c'è! La giornata continua ad essere regolata dal sole e dal clima.
Anche colui che ricerca scienza, infine, non se ne andrà deluso... Bastano da sole le Rocche Rosse a parlare di profondità marine, a testimoniare di un'era in cui quei monti erano abissi, ricettacolo di Acanthodii e Placodermi nonché di molluschi, le cui valve fossili ancora oggi ci raccontano di epoche remotissime: Anfineuri risalenti al Cambriano, Scafopodi già noti sin dal Siluriano, Lamellibranchi (gruppo delle Rudiste), specie-guida del Cretaceo, e i Gasteropodi, già noti nel Cambriano e che parlano di tutti i successivi tempi geologici e i Cefalopodi Ammonoidi Tetrabranchiati, comparsi nel Paleozoico ma sviluppatisi nel Mesozoico con tale ricchezza di specie da far meritare a quell'era l'appellativo di era delle Ammoniti. Ognuno insomma troverà qualcosa per cui valga la pena soggiornarvi per qualche tempo, ma soprattutto non resterà deluso chi a Galati Mamertino e nei centri della vallata del Fitàlia, andrà a cercare storia e arte.
Sei nomi, un personaggio
Lasciai Galati Mamertino nel 1953. Mi piace lasciare questo documento che potrebbe sembrare riferito a qualche secolo addietro e invece è lo spaccato dell’anno della mia nascita: non sono neppure novant’anni. Sino all’iscrizione all’Università non avevo mai adoperato il primo nome perché pure in famiglia era stato dimenticato. In paese si faceva tutto a memoria: nessuno chiedeva la carta di identità. Neppure all’iscrizione al Liceo - eravamo nel tempo dello scompiglio del 1943 - si erano accorti che il nome non corrispondeva al dato anagrafico. Conseguii la maturità classica quindi come Vicario Giuseppe. Finalmente alla segreteria di Palermo notarono che nel diploma mancava un “Salvatore”: solo allora ho assunto anche il mio nome ufficiale: Salvatore. Era il 1945; in quel momento la preoccupazione di ogni cittadino italiano - esclusi i pochi privilegiati (ci sono sempre stati!) - era quello di trovare un chilo di farina per arrivare vivi alla sera. Il preside del Liceo di Patti, con tutti i guai che c’erano, non sottilizzò: ci conoscevamo tutti. Apportò di suo pugno la correzione e mi consegnò il diploma con i due nomi. L’acquisizione delle generalità anagrafiche rimase poi costante; non però per la ‘mutualità’, questa aveva le sue regole; il dato anagrafico nel timbro era appena leggibile, cubitale era il numero: 3537 - INAM, altezza 1 cm: iniziata la professione medica mutualista fu dato a ciascun medico il proprio numero identificativo: i dati anagrafici minuscoli, il numero alto 1 cm.
La storia del doppio nome era nata con me e si trascinava da ventiquattro anni. Quando per la prima volta misi il naso tra le faccende di questo mondo, avevo provocato il primo putiferio. Quel mattino del 17 dicembre in paese rullava il tamburo della Novena di Natale. Galati Mamertino è un paese di montagna e sino al 1950 rimase in una splendida solitudine, senza corrente elettrica (sino al 1951), senza una via di comunicazione con la rete autostradale nazionale: la strada sterrata appena abbozzata nel 1937, fu interrotta dalle truppe tedesche in ritirata nel 1943 e riattivata, solo a clima asciutto e alla bell’e meglio, nel 1949 (Vicario, Un paese in montagna, 3a ed., S. Agata Militello 2004). Nell’anno della mia nascita persisteva il secolare rito natalizio della “novena” di Natale: iniziava proprio la notte tra il 16 e il 17 di dicembre. Alle ore 4 del mattino - pure in presenza di fulmini, tuoni, neve, tempesta - due suonatori con ciaramella e tamburo iniziavano il giro delle viuzze del paese, instancabili. Frenetico era il richiamo per i parrocchiani: Susèmuni, carusi, chi sunau a Nuera (Alziamoci, ragazzi, suona la zampogna che chiama al rito della Novena). Quella notte, alle 4 del mattino del 17 dicembre 1927, passavano i suonatori sotto casa, io emisi il primo vagito e la bisnonna sentenziò: è nato ‘Salvatore’; questo doveva essere il mio nome, in onore di Gesù Salvatore che stava per venire al mondo, ostacolata nella sua decisione, molto vivacemente, dai due nonni, tutti e due portanti il nome "Giuseppe" e una volta tanto coalizzati: l’uso secolare di tramandare il nome dei nonni in molte regioni d’Italia vige ancora. Davanti all’ufficiale di stato civile il povero frastornato neo-padre, pur falsificando la data effettiva di nascita, aveva pensato di mettere tutti salomonicamente d'accordo almeno imponendomi tutti e due i nomi; ma mettere tutti salomonicamente d'accordo almeno imponendomi tutti e due i nomi; ma soggiogato nel subcosciente dall'autorità della più vecchia, al Municipio dichiarò prima "Salvatore" e poi "Giuseppe"; a complicare la cosa ci si mise pure l'addetto allo stato civile che fra i due nomi non pose una virgola. A quel punto mi sono ritrovato con una falsa data di nascita:18 anziché 17 (ahi, la jella, aveva pensato mio padre) e due nomi senza virgola.
La bisnonna, poverina, aveva una generazione in più e, avuta la fortuna di vedere il pronipote, diede rapidamente le dimissioni da questo mondo. Fu così che i nonni si presero la rivincita e da quel momento fui solo Giuseppe e per tutti, dopo, con vari diminutivi, prima u Pippinu, poi u Pippu e infine, giunto a Roma, Pino. Ma lei, la bisnonna, attendeva, sogghignando dall'alto di una nuvola, la sua rivincita e quel dottorino che lasciava Galati, alla volta di Firenze, era ufficialmente "Salvatore", anche se con il codazzo di quel "Giuseppe". Ai lettori del XXI secolo confesso che, all'inizio della mia "terza età", quel secondo nome non è stato di fastidio: accadeva infatti che gli anni e i cari defunti mi portavano sempre più di frequente a entrare nella cinta cimiteriale del paese: per quanti Salvatore Vicario ne veniva, dalle epigrafi funerarie, la richiesta di una prece o di un ricordo! Fu così che scattò in me la voglia di prendere "ufficialmente" i due nomi che per diritto mi competevano, e che, per quanto ne sappia, mi riportavano all'unicità anagrafica: e così, da allora, in testa ai miei scritti ho cominciato a porre "Salvatore Giuseppe". Forse avrò creato un poco di confusione, ma sono sempre io: Salvatore G. Vicario.
Note:
1. I Comuni del Parco sono: Acquedolci, Caronia, Alcara li Fusi, Cesarò, Floresta, San Fratello, Capizzi, Mistretta, Sant'Agata Militello, Santo Stefano di Camastra, San Teodoro, Militello Rosmarino, Longi, Santa Domenica Vittoria, Tortorici, Ucria, Galati Mamertino e San Marco d'Alunzio (Me); Bronte, Randazzo e Maniace (Ct); Cerami e Troina (En).
2. Galati Mamertino è un centro agricolo della provincia di Messina, posto sui Nebrodi; vi si accede dalla costa settentrionale sul litorale Messina-Palermo. Per raggiungere questo comune appollaiato sulla displuviale tra il vallone Fiumetto e il fiume S. Basilio, alle falde Nord-orientali del Pizzo di Ucina, vi sono diverse possibilità. Giungendo per ferrovia o in autostrada, si può fare scalo a piacere in una delle tre stazioni: S. Agata di Militello, Zappulla o Capo d'Orlando. Da qui si prosegue verso la montagna o da Rocca di Caprileone, attraversando Caprileone, Mirto, Frazzanò, Longi, oppure da S. Salvatore di Fitalia o infine da Capo d'Orlando, via Naso, Castell'Umberto e Tortorici. Tutte e tre queste vie si dipartono dalla Settentrionale Sicula, tra S. Agata di Militello e Capo d'Orlando (percorsi interessanti ma poco comodi); oggi il percorso più agevole è invece quello che, partendo sempre dalla Settentrionale sicula all’altezza di Rocca di Caprileone, sale a Galati lungo il greto del fiume Fitàlia: la mare-monti, a scorrimento veloce.