Corpo nudo o camuffato. Esposto o evocato. Scontro e incontro con l’altro. Voce. Verità. Tra gli anni Sessanta e Settanta, nel rivoltoso calderone delle contestazioni studentesche, pacifiste, antimilitariste e femministe, le donne-artiste hanno scelto il corpo e l’azione comportamentale per generare, attraverso affilate operazioni artistiche, rotture e cambiamenti. Il fine ultimo del Femminismo nell’arte non è stato però quello di “definire il maschile rispetto al femminile” quanto piuttosto “la soggettività a partire dal genere, dal sesso, dalla cultura, dalle storie individuali e collettive” (Carla Subrizi).
L’azione comportamentale si è fatta palesamento del dolore, dell’angoscia, del trauma e del desiderio. Dell’uno come della moltitudine. Ha sfidato i limiti, condotto lotte politiche, recuperato il rimosso. Ha presentificato i substrati della fisicità. Il corpo ha universalizzato l’intimo. Fino a divenire corpo sociale. A New York, nel 1970, nasceva l’Ad Hoc Women’s Art Committee, mentre a Londra sbocciava il Women’s Liberation Movement. Gruppi di donne si riunivano in associazioni culturali, laboratori e spazi espositivi allo scopo di rivendicare una nuova presenza femminile nell’arte. A Parigi Gina Pane già feriva il proprio corpo per darsi all’altro, divenendo esponente indiscussa dell’Art Corporel. E nel 1975 Anne Marie Boetti parlava di “Altra Creatività” in un articolo pubblicato nella rivista italiana Data.
È questa la cornice in cui s’incastona l’istrionica presenza di Eleanor Fineman Antin. Femminista convinta, esponente dell’Arte Concettuale e della Body Art, celebre per le sue performance, per i suoi video, per le sue foto, per i suoi testi, per le sue installazioni, Eleanor ha fatto del corpo – e di ciò che del suo passaggio resta – un vero e proprio discorso sull’identità e sui percorsi emozionali. Nata nel Bronx di New York City il 27 febbraio 1935 da genitori ebrei polacchi emigrati negli Stati Uniti, ha studiato prima presso la Music and Art High School e poi al City College. Qui ha incontrato l’uomo della sua vita: David Antin, un poeta. Lo ha sposato e si è trasferita con lui a San Diego, in California.
Ha esordito come pittrice, ma già a partire dalla metà degli anni Sessanta ha spostato la sua attenzione sul binomio percetto-concetto. Il suo primo lavoro concettuale risale al 1965 ed è oggi conservato alla Tate Modern. Si intitola Blood of a Poet Box ed è liberamente ispirato all’omonimo film di Jean Cocteau. Qui il corpo è evocato dal sangue. Il sangue-inchiostro di cui un poeta si serve per vergare la carta incidendovi verità. Per realizzare questa piccola installazione la Antin ha recuperato ben cento campioni di sangue appartenuto a poeti noti e meno noti – tra questi Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti – , e li ha posti su vetrini.
Nel 1971 è tornata alla carta, ma in una maniera assai intima e diaristica. Quasi psicanalitica, diremmo. I nodi venuti al pettine dalla conflittuale relazione con la madre – una madre che l’avrebbe voluta diversa da quella che era, più mansueta, meno sovversiva, medio-borghese, niente affatto femminista – sono diventati disegni. Disegni somiglianti a confessioni. Parole-immagini realizzate in diciassette esemplari. An Exhibition of Drawings rappresenta le diverse condizioni emotive vissute dalla Antin durante le conversazioni con l’altro materno. Isterica, stanca, calma, provocatoria... Diciassette stati d’animo in diciassette disegni, per narrare la resistenza – e l’autodeterminazione – di una figlia.
Sempre al 1971 risale Domestic Peace, altro lavoro che prosegue in questa direzione: circa sessanta elaborati grafici narrano le conversazioni avvenute tra l’artista e sua madre. Su queste pagine quadrettate, brandelli di diario scritti in corsivo si alternano a linee rabbiose che appaiono quasi come tracciati di un elettrocardiografo, e traspongono graficamente sommovimenti emotivi. Tra il 1971 e il 1973 la Antin ha invece realizzato una installazione che potremmo definire itinerante, e che richiede una certa progettualità. Il tema è la memoria del viaggio e il numero che si ripropone è il cento. 100 Boots è un lavoro sulla testimonianza di un percorso. Cento stivali, ben posizionati e allineati, modificano la percezione di un territorio e attestano un passaggio. Un accurato reportage fotografico composto da più di cinquanta scatti stampati in formato cartolina, è stato successivamente esposto presso il Museum of Modern Art di New York .
Parallelamente alle carte e alle installazioni la Antin ha avviato le sue sperimentazioni performative sull’identità. Già nel 1971 ha partorito il suo alter ego: Eleanora Antinova, danzatrice di balletti russi bistrattata da Sergei Diaghilev. E sotto questo pseudonimo ha scritto e firmato spettacoli teatrali per circa un decennio. Il suo obiettivo, però, restava quello di lavorare sull’identità attraverso alterazioni estetiche e autobiografiche.
“L’autobiografia non esiste, è solo arte e menzogne” direbbe Jaenette Winterson. Ma la Antin, in un suo scritto del 1974, titolato Notes on Trasformation, sosteneva invece che…“l’autobiografia può essere considerata un particolare tipo di trasformazione in cui il soggetto sceglie una specifica, ma ancora non articolata immagine, da cui procedere progressivamente per definire il suo sé con sempre nuovi aggiustamenti …”. Divenire qualcun altro, modificare la propria immagine o la propria identità. Travestirsi o scolpirsi. Trasformare il proprio corpo mediante lo scalpello del digiuno o prendere sembianze maschili, non sono altro che espedienti ricercati per scoprire come si è e come si potrebbe essere.
Sperimentazioni analoghe hanno coinvolto diversi artisti nel corso del XX secolo, dal camouflage di Marcel Duchamp agli interventi chirurgici di Orlan. Lea Vergine, nel suo Body Art e Storie Simili, affermava che noi tutti“siamo nascosti sotto il nostro contrario”… e l’uomo che Eleanor diventa in The King (1972) potrebbe, di fatto, esserne la prova. Ma il concetto di identità mutante resta valido pur non modificando il genere. In The ballerina and the burn del 1974, la Antin resta donna. Ma è una donna di tutt’altra pasta. Il video e le foto, in netto contrasto tra loro, sembrano immortalare due differenti identità: negli scatti in bianco e nero emerge l’immagine di una ballerina in tutu perfettamente in posa sulle punte, mentre il video sembra smascherarne punti deboli e fragilità. La ballerina appare insicura e dinoccolata, inciampa, cade e sembra non essere all’altezza del ruolo che riveste.
Negli anni Settanta, poi, il corpo femminile è stato imbottigliato in nuovi canoni estetici. Canoni alla Twiggy, spigolosi e asciutti, inneggianti al sacrificio. Donna-manichino fuori, donna-burattino dentro. Due immagini che la Antin mal sopporta. Ma vuole capire fin dove l’ostinazione possa spingere il corpo, per cui decide di provare a vivere personalmente questo genere di mutazione. Carving: A Traditional Sculpture del 1972 è senza ombra di dubbio il lavoro più celebre, ma anche il più invasivo, che la Antin abbia mai realizzato. Invasivo poiché è stato svolto sulla base di una alterazione fisica rapida e forzata: il dimagrimento del proprio corpo mediante un regime di quasi- digiuno. Per 36 giorni, dal 15 luglio al 21 agosto, Eleanor si è lasciata dimagrire. Mangiando pochissimo, quasi nulla. Ciò che le interessava era documentare fotograficamente la trasformazione del proprio corpo forgiato dalla dieta. Il calo ponderale è stato rapidissimo, e durante quel mese e sei giorni l’artista ha registrato il proprio dimagrimento posando ogni mattina, davanti ad una parete bianca, nelle medesime quattro posizioni: frontale, profilo destro, profilo sinistro e di spalle. Il corpo stesso è diventato opera. Perché, come diceva Michelangelo, “la scultura si fa levando…”.
E anche un principio rinascimentale di tale portata può essere convertito al concettuale. Scarnificando se stessa Eleanor ha denunciato un nuovo modello. È stata la fame a scolpire la nudità e a renderla più fluttuante. Così come è sempre la rinuncia a renderci niente. Un lavoro, questo, che anticipa notevolmente problematiche relative a comportamenti patologici di tipo anoressico. Il risultato è stato una sequenza di 144 fotografie della misura di cm 17x12 ognuna, entrate poi a far parte della collezione permanente dell’Art Institute of Chicago. Nei giorni del semi-digiuno la Antin ha inoltre realizzato un’altra serie fotografica dal titolo The Eight Temptations, in cui otto autoscatti la ritraggono seduta al tavolino di un bar, di fronte a sandwich, toast, birra e altre leccornie che di fatto non mangerà. La stoica resistenza al cibo ha la meglio sui bisogni corporei e sugli umani desideri.
La Antin ha scritto libri, realizzato video, diretto e prodotto film come L'Ultima Notte di Rasputin del 1989 e L'uomo senza un Mondo del 1991. Tra i suoi lavori fotografici più recenti mi piace ricordare il baroccheggiante The Last Days of Pompei ( 2002) in cui, come in un tableau vivant, mette in scena personaggi bucolici in pose estatiche, ignari della catastrofe imminente. Si pongono sulla stessa scia le fotografie della serie Roman Allegories (2005), dai colori assai vividi. Questi tableaux sono nati in seguito a un viaggio in Italia durante il quale l’artista ha avuto modo di visitare le più note città d’arte e i più importanti musei. Helen Odyssey (2007), invece ci offre una nuova chiave di lettura del poema epico. Qui Elena sta nascendo come plasmata nell’argilla, in tutta la sua grazia sensuale. Eleanor Antin vive sempre a San Diego, in California, dove è stata docente di arti visive presso l'Università.