La figura di Artemisia Gentileschi è diventata popolare in Italia anche grazie al film francese del 1997 (molto fedele alla sua biografia) a lei dedicato, Artemisia. Passione estrema di Agnès Merlet dove una giovanissima Valentina Cervi interpreta la geniale artista. Il sottotitolo del film identifica alla perfezione la caratteristica principale della pittrice: una passione estrema, infinita per la pittura, ma anche per il suo modo di affrontare la vita. Come spesso accade per i grandi artisti, anche la vita di Artemisia è offuscata da tante lacunosità, da dubbi, incertezze ed ipotesi.

Emblema di un femminismo pressoché esasperato (a Berlino, per esempio, esisteva un albergo “Artemisia” solo per la clientela femminile), la Gentileschi è entrata nell’immaginario collettivo come la donna-artista che rivendica la sua “superiorità” sull’uomo, minandone la virilità sul piano artistico. Artemisia, infatti, pur partendo dal modello caravaggesco, riesce a superarlo, a dimostrare che la donna pittrice è forza e non solo femminilità, e può far tanto e più dell’uomo attraverso le sue rappresentazioni.

Così la medesima scena biblica di Giuditta che decapita Oloferne, nella visione di Artemisia diventa ancora più violenta e truce di quella caravaggesca; sicuramente anche alla luce dello stupro avvenuto nel 1611 (e del conseguente processo). L’evento tragicissimo si riflette, inevitabilmente, nello specchio artistico dove biografia, racconto biblico e Arte si fondono e si confondono. Lo specchio artistico ci regala un’immagine forte, troppo forte anche per Caravaggio che dipinse lo stesso tema, con meno crudeltà.

In Artemisia, inoltre, c’è un altro elemento assente al suo modello pittorico: la complicità femminile. È questo l’elemento essenziale per la comprensione e l’accettazione di una violenza non soltanto simbolica. Trasfigurazione e trasmigrazione nei colori chiaroscurali di una violenza subita in giovanissima età, di una violenza che portò l’artista ad essere – erroneamente - considerata come “una donna di facili costumi”; nonostante al processo contro il suo stupratore, Agostino Tassi (maestro e amico del padre, Orazio), avesse dimostrato la sua innocenza e l’incapacità di sedurre il proprio violentatore, visto che l’accusa era proprio quella di averlo sedotto.

Lo stupro, l’umiliazione di visite ginecologiche pubbliche e il processo furono le tappe di un calvario che seppe affrontare a testa alta e con determinazione. La sua incredibile forza interiore (raccontata anche in un documentario italiano del 2020, Artemisia Gentileschi, pittrice guerriera) la condusse a lottare e vincere ogni forma di pregiudizio in un’epoca che aveva scarsa considerazione della donna, non solo in ambito artistico.

Il valore della sua arte e lo spirito da guerriera (appunto!) la portarono ad essere apprezzata fuori dai confini italiani (in Inghilterra, in Francia e in Spagna) e a far sì che fascino e carisma caratterizzassero la sua opera. Artemisia, connubio di talento e personalità indomita, si ispirò al padre Orazio (l’unica di sei figli ad aver ereditato la passione paterna), a Caravaggio, a Rubens e a Van Dick “senza mai rinunciare, tuttavia, al proposito di una personalissima reinterpretazione, sia che si tratti di temi biblici, sia di temi classici” 1.

La sua prima opera, Susanna e i vecchioni (1610) ricalca il modello del padre per l’accostamento dei colori e la modulazione raffinata di luci e ombre. Non vi è solo il prolungamento del modello oraziano in questa tela, ma anche il richiamo (non affatto velato) agli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina. Le Madonne (Madonna col bambino, 1609, Roma; Madonna col bambino 1609-1610, Firenze) e la Maddalena penitente (1617-1620, Firenze) hanno molti elementi comuni come la ciocca riccia e ribelle che “taglia” la guancia, la mano destra che stringe il seno sinistro per allattare il Bambino (nelle Madonne) o lo sfiora (nella Maddalena), la postura in avanti sono dei veri e propri marchi della sua arte.

Lavorò per diversi committenti, tra cui Carlo I e diversi importanti ecclesiastici, e si spostò da Roma a Firenze (dove, prima di allora, non erano mai state ospitate pittrici femminili; fu accolta nel 1616 all’Accademia del disegno), poi molto probabilmente a Genova e infine a Napoli. Ai tempi era la seconda città d’Europa dopo Parigi, tre volte più grande di Roma e dove il suo talento ebbe modo di entrare in contatto con quello di altri pittori.

Anche la Gentileschi fu attratta dalle possibilità che offriva la città partenopea, pur mantenendo anche durante il periodo napoletano i rapporti con i suoi committenti del Centro Italia 2.

Vorrei sottolineare e rimarcare l’audacia di Artemisia attraverso due opere in particolare. Audacia ben diversa da quella raffigurata in Giuditta che decapita Oloferne (1620), dove il superamento dell’iconico caravaggesco sta anche nell’aver abbigliato le due donne con vesti eleganti e monili preziosi:

  1. L’Allegoria dell’inclinazione (1615) dipinta per la volta della nuova galleria di casa Buonarotti. “La Gentileschi dipinse un nudo di donna così realistico, così femminile e carnale che il bisnipote di Buonarotti lo farà coprire con dei panneggi”3. Il volto è estatico e sarà il prototipo dei visi di altre figure del periodo fiorentino, come la Maddalena.

  2. L’Autoritratto come allegoria della pittura (1630): è appunto stato interpretato come una sfida “audace e aperta” alla tradizione pittorica4. “La Gentileschi crea un’immagine che nessun artista di sesso maschile avrebbe potuto realizzare: una figura allegorica che è, al tempo stesso, un’immagine autoreferenziale”5.

La Gentileschi vi si attribuisce tutti gli elementi legati alla personificazione della pittura: la catena d’oro, la maschera pendente simbolo dell’imitazione, i riccioli ribelli emblema della frenesia divina della creazione artistica, gli abiti di diversi colori, allusivi all’abilità del pittore (e allo strumento principe, la tavolozza). Dal ricco epistolario sappiamo che gli ultimi anni fino alla morte (1652) furono infelici e tormentati da una salute cagionevole. Conformemente ad altri artisti, i suoi ultimi lavori risultano ripetitivi e privi di quell’originalità che da subito li aveva contraddistinti. Il suo genio è stanco, spento ma non la sua fama legata a quei due eventi sensazionalistici della sua esistenza (lo stupro e il processo ad Agostino Tassi, da cui lui uscì praticamente indenne) che sopravviveranno, troppo a lungo, alla sua grande e sensibile opera.

Note

1 Tiziana Agnati, Artemisia Gentileschi, Artedossier, Giunti, Milano 2016, p. 6.
2 Op.cit. p. 32.
3 Op.cit. p. 25.
4 Op.cit. p. 35.
15 Op.cit. p. 35.

Fonti

Tiziana Agnati, Artemisia Gentileschi, Artedossier, Giunti, Milano 2016.
Artemisia. Passione estrema, regia di Agnès Merlet, 1997 DVD.