L’opera pittorica quale epifania di un’essenza, di un modo di formalizzare l’apparire del contingente. La pittura quale filosofia, via ontica, forma di conoscenza per prassi amplessiva, demiurgica, idolica, specchiante. Se non cambio i nomi non posso cogliere l’essenza. La rosa pristina resta nel suo nudo nome se è il nome giusto, ma il “nome dei nomi” non è ancora il Nome. Occorrono molti nomi per avvicinarsi al Nome, l’Indicibile.

Women in black (Madonna greca, Bellini)

Bellini è un rivoluzionario dolce. Compie una grande rivoluzione epocale e lo fa sommessamente, con grazia infantile. Prende la forma-struttura dell’icona cristiana orientale, qui nel suo modello che mima il sepolcro della deposizione di Cristo (con la sua bordatura, vista dall’alto, con gli occhi di Dio o di un uccello), e lo fluidifica, occidentalizza, naturalizza. Il trauma salutare introdotto dal Bellini è dato dal fondo nero al posto dalla foglia d’oro. Mai rivoluzione fù più radicale, semplice, netta. Leonardo e Caravaggio continueranno su questa rivoluzione belliniana con il tema della figura in luce che esce dall’oscurità retrostante.

L’Eidon diventa tratto/ri-tratto senza perdere intensità contemplativa-valoriale nell’assumere la luce dei corpi fisici e le tonalità del paesaggio. Un pop aulico, aristocratico quello belliniano dove l’icona si fa corpo parusico in quanto personificante, individualizzante. La geometria erutta una dynamis. Dipinto nel dipinto. Metafisica della citazione.

Tutto cambia cambiando un colore. Questo sia per l’antitesi alchemica (oro/piombo) che per la contestualità fra indicazione formale (stasis) e presentazione espressiva. Il fondo è astrazione, non tempo, assolutizzazione del tema. Il fondo aureo ora nero, e lo resterà per due secoli grazie a Bellini, esprime in immediata sintesi quasi minerale l’essenza spirituale del modello iconico ripreso: la melanicolia della Vergine che abbraccia il divino Infante già conoscendo la futura croce. Qui la bile nera diventa per la prima volta l’attuale malinconia, cioè sottile sofferenza, lo struggersi, la dolcezza nel patire.

Il respiro di Dio (Pietà, Bellini)

Ancora Bellini. Ma eccentrico: riprende da Antonello da Messina e dai fiamminghi la figura popolaresca, imbruttita, ruvida della Vergine distrutta dal dolore, divenuta caricatura di se stessi. Giovanni invece resta Belliniano nella sua luminosa e metafisica efebicità. Cristo nel mezzo, dentro il tema bizantino del sepolcro-fonte battesimale, assume la durezza brutta della morte con le armonie intense e fitte che strutturano-sostanziano il dipinto. Il cuore dell’opera è il respiro, il “consegnare lo spirito” (paradidomi) proprio del Cristo reso con la bocca socchiusa, semiaperta, come quella di Maria e di Giovanni che stanno come inspirando il respiro santo che l’Uomo-Dio ha appena esalato sul mondo, sul cosmo.

Sul fondo l’albero spoglio e solitario nel mezzo del fiume e tra correnti avverse è la resa segnaletica della vicinissima solitudine del Cristo morto ed eretto. L’Agnello sgozzato e ritto dell’Apocalisse. Maria e Giovanni stanno in sacra rappresentazione mimetica al Cristo: lei appressando bocca a bocca (ad-orare, letteralizzazione dell’etimo di: adorazione) e braccio a braccio e Giovanni con il segno trinitario delle tre dita. Bellini formalizza tradizioni orientali alle sacre rappresentazioni popolari-rituali e scultoree sul tema della deposizione. Opera pop in quanto parlante, autocelebrante la propria espressività.

Il riposo del guerriero (Cristo morto, Mantegna)

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È un Cristo-Eroe quello che si ammira in pochi centimetri di dipinto. Un Cristo pacificato dopo aver compiuto perfettamente la sua opera. Un Cristo trionfale divenuto trofeo come allude la pietra imperiale porpora, propria dell’imbalsamazione di re e pontefici (vera protagonista dell’opera) e il vasetto dell’olio da inumazione posto non a caso vicino al capo del Capo. Cristo come Unto, Pietra oleosa. Un Cristo filtrato dalla cultura cavalleresca del pittore e dal dolore terribile per la morte del figlio a cui avrebbero voluto sostituirsi lo stesso autore che si ritrae nel volto del Salvatore deposto. Sacrificio significa sostituzione, ci ricorda Roberto Calasso. Un dipinto scultoreo dove la solitudine abissale di Cristo splende di luce regale, perfetta nel suo totale abbandono, inarrivabile. Uno dei primi quadri piccoli, personali, dotati di una missione individuale, come la Tempesta di Giorgione e la Flagellazione di Piero della Francesca.

La sosta di Aiòn (Madonna con bambino, Bellini)

Maria e il divino Bambino guardano entrambi chi guarda. Il dipinto si completa con la partecipazione visiva necessitata, completante del fruitore. È sempre così ma qui la complementarietà ermeneutica si fa più intensa proprio per il duplice “guardare fuori” dei protagonisti della raffigurazione. Il tempo è l’essenza dell’opera. Dietro a loro solo un panno verde, senza segni, già astratto. Non luogo mistico. Ai lati due paesaggi con toni luminosi differenti. C’è una ritmica sera-mattino che converge verso il centro aionico. Ecco l’essenza parusica del presentare mariano di Gesù infante, propria di tutta l’arte cristiana di ogni tempo ma qui più chiarificante. È da Aiòn che Maria e Gesù ci guardano. Attraverso i tempi che, attraversati, si addolciscono e si armonizzano in una silente musica. L’agostiniano presente del presente.

Kaos calmo (Ritrovamento del corpo di San Marco, Tintoretto)

Deus ex machina il corpo astrale dell’evangelista Marco appare con il suo kerigma autoreferenziale: questo è il mio corpo (che richiama il Cristo deposto del Mantegna). Lo scopo è chiaro: fermare il caos profanatorio di chi cerca nel buio di una chiesa e di una cripta, di notte, il celebre corpo desiderato dal potere di Venezia. Ma il “caos” è nella struttura dell’opera dove la luce scarsa è riflessa dalle candele sul loro stesso fumo e la comparsa del committente, di un’allegorica donna (Venezia?), del cieco che attende la prova dell’autenticità del corpo santo con la sua prossima guarigione, e l’indemoniato appena guarito generano un senso epifanico appunto di disordine, di assenza di direzione e stabilità. Ma è il braccio sinistro di Marco che rafforza visivamente il punto di fuga architettonico che tutto regge e calma e tiene.

Il “doppio” torna in unità con l’implicito centro d’irradiazione. L’unità è ternaria e ogni apparizione contiene il proprio logos quanto lo scompiglio che suscita. Ecco già il Barocco: nuzialità tra dramma, gloria e carnalità teatralizzati con perfetta e seminascosta regia.

La lancia e il vento (Deposizione di Cristo, lunetta, Crivelli)

Una deposizione abbagliante per il luminoso oro che bizantinamente e venezianamente tutto pervade e regge. Un Cristo biondo, algido la cui carne è luce rappresa, lentificata. Ecco due segni che conversano in silenzio: il taglio della lancia sul costato, le crepe nella pietra e il vento che agita la fiamma della candela dalla cera grezza (orientale) quanto le pagine delle Scritture. Ho indicato due segni e non tre perché le fratture nella pietra-sepolcro (che ricorda il terremoto ricordato dai Vangeli) irradia la medesima segnaletica del segno lasciato dalla lancia di Longino. Segni di violenza messi in scena nella luce.

Il taglio della lancia appare preciso, fisico, ampio e storicissimo nel ricordare la distinzione fra un lato della lancia, bombato, e il suo retro, piatto. Un taglio che apre un varco che resta aperto, fino alla fine del tempo. Da quella mistica caverna spira un invisibile vento: il medesimo Spirito che vivifica sia il fuoco che la lettera. Un dipinto metallico, sfarzoso, greco nella sua uniforme e abbagliante luce fra il leukòs e lo xanto.

Il Vangelo secondo Federico (Pala Montefeltro, Piero della Francesca)

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Un po’ pala d’altare e un po’ sacra conversazione ma tutta opera politica e politicizzata che ruota non attorno alla Vergine ma attorno al Duca che vuole celebrare la nascita di suo figlio nella sua Urbino. La selezione delle identità è tutta ducale: i santi di Urbino, i santi protettori delle lettere e quattro geniali angeli metafisicizzanti, bizantini, aionici. Un nodo angelico d’eterno che media fra la conchiglia-perla-uovo della nascita felice-fatale (la catena è aurea come quella di Zeus nel capitolo ottavo dell’Iliade, segno alchemico) e i santi dei gusti federiciani: travagliati, feriti e abbronzati come lui, guerriero e letterato.

Un’opera architettonica in pittura dove Federico è statua a se stesso e che si irradiava sinergizzando con la cappella d’origine di simile architettura. Bramante a San Satiro in Milano, insegna. La luce è ferma, omogenea, irreale. Federico si mette di lato, ferma la visione quale suo limes. Ne è araldo e occasione di fondamento. Suo alleato il tappeto. Unici riflessi: la luce sulla sua armatura. Tutto il resto si disincarna nella luce immota e senza tempo.

La quadratura del cerchio (Lo sposalizio della Vergine, Raffaello)

Un quadro totalmente ideale, irreale nel suo estremo e saturante neoplatonismo cristiano. Pura filosofia geometrica. Il protagonista è il tempio, circolare, cosmico ma che assume in sè anche la forma quadrangolare. Si dà la percezione della sua centralità. Il cosmo ne è eco, ripetizione, risonanza. La porta è templare, giubilare e quindi sempre aperta quale segno di gloriosa e trionfale misericordia. Incanto e disincanto.

Il disincanto delle due folle, maschili e femminili, che rappresentano i “non eletti” rispetto ai due sposi eletti. Ma il tempo qui è verticale, assiale e sono tre tempi. Il primo: il tempo templare, assoluto, imperturbabile. Il secondo: il tempo mediano della storia dove anche i non cristiani possono compiere il bene (l’israelita che fa elemosina nella spianata) e il tempo quale “presente assoluto” dell’irrompere del kairòs sacro-divino: il gesto dell’inallelare quale passaggio decisivo della storia della salvezza universale. Celebrazione della reliquia dell’anello sponsale di Perugia quale zero-varco che ripete nel microcosmo l’anello della forma di fondamento del Tempio. La scansione dei lastroni colorati unisce verticalmente nell’irradiazione teofanica Tempio, gli accadimenti del divenire e l’Istante dove l’Eterno si fa Storia.

La statua parlante (Cristo alla colonna, Bramante)

Cristo sotto uno zoom filmico che sarebbe piaciuto a Sergio Leone. L’unica flagellazione dove vedi il flagellato ma non i flagellanti, se non nell’occhio lucidamente sofferente della Vittima che li guarda avvicinarsi. Un corpo statuario, perfetto, luce solida sia teatrale che carnale nel rosso della pelle offesa dalle grosse funi ruvide che stringono il braccio. Una corona di spine verde luminescente che ricorda quella serpentina della Pietà di Bellini. E poi l’inaudito: il volto cereo, già esangue, grigio, irreale. Contrastante con la vitalità traboccante e solare del busto. Un volto già in angoscia che si lascia oscurare stillando gocce limpidissime, quasi invisibili. Ma dietro ecco la luce che dolcemente entra, come nel Cenacolo Vinciano. Una luce che fa vibrare il paesaggio leonardiano e appaiono anche due segni: il vascello orientale con le tende (allusione alla strage turca di Otranto) che incrocia il vasello della salute cioè il calice eucaristico. Incrocio come dramma e come speranza, possibilità di cambiamento. Un western mistico che ci turba.

La prima cena (La cena in Emmaus, Caravaggio)

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Una cena cosmotetica, fondativa, palingenetica. Il gesto di Gesù al centro benedice e frattura il pane. Gesto aurorale, germinativo che genera anche l’atto di riconoscimento stupefatto da parte di Luca e Cleopa-Caravaggio. Barocco perfetto nella regia ternaria della strutturazione posizionale-relazionale ma opera che supera il proprio tempo per la sua stasi interiorizzante.

Il centro è il cuore e qui davanti al cuore di Gesù ecco il dito indice che brilla di luce (la più intensa del dipinto) come il digitus Dei della creazione. La struttura appara cardiaca e centripeta. L’irradiazione di luce spirituale-semantica dell’apparire di Gesù provoca l’opposto movimento contro-epifanico dell’apparire dello stupore assoluto che si muove verso il centro-cuore-dito. Tutto è ternario e triplice. Il dipinto stà su un cerchio in cui è iscritto un triangolo. Il volto di Gesù è inclinato e mezzo in ombra. Ricorda il volto del Gesù del Cenacolo Vinciano. Un volto intimo, concentrato, assorto. Pura presenza. Pura interiorità. Dolce e umile apocalisse. Unica ex-centrica la donna anziana che reca una costata di carne in un vassoio. Allegoria della vecchia legge, della sinagoga. Carne secca versus la carne viva che è Cristo. No. Non ultima, anche se le assomiglia: ma la prima cena della palingenesi, dell’apparire della resurrezione. L’inaudito si fa mensa comune, povera, colloquiale. L’oste si sta muovendo-convertendo. Il vero oste-Ospite è il Cristo. Cristo-Giudizio ricrea il mondo, cambia le prospettive e i ritmi.

Le porte dell’Ade (Ultima Cena, Rubens)

Un dipinto poco interessante, retorico e canonico allo sguardo contemporaneo. Eccessivamente figlio del proprio tempo. Ma ecco il fattore discriminante, unicizzante: la mano di Giuda sulla tavola, i suoi occhi, i suoi piedi e quel demonico grande cane che ci guarda. Inquietante. Rubens mette il divino solo nella luce, nella luce fisica che attraversa il bicchiere di vino. Attenzione nordica al vetro e all’ottica con i suoi due punti focali. Gli occhi di Giuda indicano sottilmente la sua colpa, la sua auto-alienazione. Giuda viene acutamente colto nel suo non accorgersi, nel suo delirante fantasticare. È l’unico apostolo che non si accorge cosa stia accadendo, cosa stia facendo il Cristo: il più grande miracolo di tutti i tempi cioè farsi pane e vino restando Dio.

Giuda si mette di lato, quasi davanti al Cristo e guarda fisso fuori, oltre Cristo, senza Cristo. Perso nel suo ego, nel suo orgoglio ostinato, opaco. Ma qualcosa accade, sebbene lui non se ne accorga: la sua mano destra appare vicino al fuoco della candela, pare incendiarsi nel suo bordo rosseggiante (Rubens, appunto) e la mano sinistra appoggiata sulla tavola sembra sfaldarsi, incendiarsi, perdere forma e consistenza. Le fiamme infernali aperte dall’assenza del Cristo iniziano ad incendiarsi e ad incendiarlo. Il cane è ovviamente Cerbero, monito abissale, epifania oscura. Gli occhi del cane come quelli di Giuda sono freddi, fissi, rigidi. Non possiedono la dolce limpida luce che riempie gli occhi del Cristo e che ritroviamo nella candela sulla tavola, nei punti focali dei suoi raggi di luce e nella punta biancheggiante dello spigolo della tavola.

Walk in progress (Fiumana, Giuseppe Pellizza)

Un quadro rinascimentale a fine Ottocento. Pieno di citazioni: il bambino tratto dai disegni di feti leonardiani, la mano del David di Michelangelo, le vesti al vento alla Botticelli. Il Tempio che cammina verso la sua apocalisse riassume ogni tempo. Ma il fattore rivoluzionario, unico è un fatto d’inversione: il suolo luminoso e il cielo scuro. Da dove viene questa luce che si pone come fondale all’incidere della folla proletaria? Proprio dal suo incamminarsi, da quei passi che riverberano, che scuotono l’aria e la cui ombra-orma appare anticipata, sdoppiata.

Una fiumana, un flusso umano che da indistinto diventa forma ed equilibrio compositivo-cromatico ma al contempo anche irradiazione solare da un punto posto sulle colline retrostanti come nei soli sorgenti pellizziani. La massa si fa persona, nella luce, verso la luce. La luce è nel futuro, come ogni Idea postula per chiamare al movimento. Acqua informe sul fondo, forma e luce sul fronte. Pura dialettica hegeliana. Pittura quale filosofia e quale ritmo-musica-sonorità.

L’attimo fuggente (Il bacio, Hayez)

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Un’opera-gesto. Per la prima volta. Prima di questo il gesto del baciare compariva solo nel tema di Amore e Psiche. Un’opera quasi aniconica, impersonale. I volti si scorgono appena. Tutti si possono riconoscere nelle figure dei due amanti. Conta solo il loro gesto-attimo. I corpi stanno muovendosi. Il bacio è lentissimo e pure veloce. Il piede del giovane è già sul gradino, deve andare via. Il corpo della donna si inarca sotto l’impeto della dinamys maschile. Hayez padroneggia le basi dell’opera: il chiasmo dei colori-pesi. Metallica la veste femminile, calda e morbida quella maschile. Inverte le aspettative archetipali ma l’importante è il dato chiastico-strutturale, a prescindere.

Un quadro tecnico, inaugurante i nuovi tempi non per il tema sentimentale ma per la sua logica meramente tecnica-posizionale. I corpi che si toccano, ecco il vero bacio. Un Dioniso silente passa in punta di piedi. Ancora più efficace di un corteo rumoroso. Un’opera che implode, centripeta. Un apax. Tutto verso il centro. C’è solo il bacio. Sul fondo l’ombra dell’autore-soggetto che, giustamente, scompare per lasciare operare l’opera, sola. È l’attimo fuggente del “bacio senza volto” che rende in-tensa e intensionale, puntuale la situazione valoriale-espressiva, tutta l’opera che riposa nella sua tesa stasi. Attorno il nulla di un non-tempo e di un non-luogo. Il deserto magico del teatro. Verdi, lì vicino.

Magnete d’Italia (Rissa in galleria, Boccioni)

Il protagonista è Milano, la città-magnete dei futuristi. La città ebbra di risse, scontri, manifestazioni della folla in delirio. Quelle che Marinetti esaltava, chiedendo anche la depenalizzazione della rissa quale fattore di vitalità e di spontaneità. Un’opera puramente situazionistica, istantanea. L’occasione è volutamente misera: due donne che si prendono per i capelli e la folla attorno. Ma è la città che brilla di luce elettrica, di tensioni, barbagli coloranti, linee di energia. Un quadro lacaniano: non c’è un centro, in quanto le due donne si confondono con la folla, ma c’è un movimento verso un centro, comunque. Una folla eccitata, elettrificata.

Opera puramente situazionistica, già post-moderna. Perfettamente futurista in quanto celebra la liricità della materia, la sua animosità. Ogni grande opera introduce in sè stessa, si forma, si dà, appare come un incrocio. Qui l’incrocio è tra tecnica divisionista-puntinista e l’idea futurista-neopanteista delle forze sottili della materia-tecnica. Le luci del caffè della Galleria sembrano esplosioni, frantumazioni. La dymanis che è Milano si autocelebra.

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