Si è conclusa il 26 ottobre 2024 la seconda Sessione della XVI Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dedicato proprio alla sinodalità nella Chiesa (“comunione, partecipazione, missione”). Il Papa, in un recente incontro a Bruxelles, dalla Basilica del Sacro Cuore di Koekelberg, ha proposto questa riflessione: “Il processo sinodale dev’essere un ritorno al Vangelo; non deve avere tra le priorità qualche riforma “alla moda”, ma chiedersi: come possiamo far arrivare il Vangelo in una società che non lo ascolta più o si è allontanata dalla fede? Chiediamocelo tutti” (v. L’Osservatore Romano del 28 settembre 2024).
In questo senso il Papa vuole subito mettere in evidenza la necessità di superare due sbagliate prospettive: quella di voler imporre riforme “alla moda”, oppure quella di garantire la difesa di vecchie posizioni di chiusura clericale. “Sono entrambe prospettive che finiscono col dimenticare l’unico vero scopo di ogni riforma nella Chiesa: il bene delle anime, la cura del santo popolo di Dio”. Si comprende allora che la sinodalità “non è un’incombenza burocratica in più per chierici e laici che l’adottano di malavoglia e a parole, rimanendo nei fatti ancora legati ai modelli di un secolo fa. Non è il passe-partout grazie al quale giustificare ogni iniziativa mondanizzante. È invece l’espressione piena di una comunione vissuta”, ben sapendo che è solo Cristo a guidare la sua Chiesa (A. Tornielli).
Il Papa, nel suo discorso di chiusura dei lavori in Vaticano, ha suggerito di adottare due atteggiamenti: quello volto ad evitare la rigidità (“la rigidità è un peccato che tante volte entra nei chierici, nei consacrati, consacrate”); e quello di concretizzare la “convivialità delle differenze”, non rinviando all’infinito le decisioni (magari per paura di arrivare a scelte contrarie alla propria impostazione), ma coinvolgendo tutta la Chiesa in uno stile sinodale nel quale “azioni come l’ascolto, il discernimento e il prendere delle decisioni si affiancano a momenti di pausa, silenzio e preghiera”.
Del resto il Papa, nell’Aula del Sinodo il 9 ottobre 2021, aveva già rivolto ai partecipanti queste chiare parole:
Grazie per essere qui, all’apertura del Sinodo. Siete venuti da tante strade e Chiese, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, e sono certo che lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità. Ribadisco che il Sinodo non è un parlamento, che il Sinodo non è un’indagine sulle opinioni; il Sinodo è un momento ecclesiale, e il protagonista del Sinodo è lo Spirito Santo. Se non c’è lo Spirito, non ci sarà Sinodo... Nell’unico Popolo di Dio, perciò, camminiamo insieme, per fare l’esperienza di una Chiesa che riceve e vive il dono dell’unità e si apre alla voce dello Spirito.
Papa Francesco aveva ricordato poi che “le parole-chiave del Sinodo sono tre: comunione, partecipazione, missione. Comunione e missione sono espressioni teologiche che designano il mistero della Chiesa e di cui è bene fare memoria. Il Concilio Vaticano II ha chiarito che la ‘comunione’ esprime la natura stessa della Chiesa e, allo stesso tempo, ha affermato che la Chiesa ha ricevuto ‘la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio’ (“Lumen gentium, n. 5).
Lo stesso San Paolo VI (all’Angelus dell’11 ottobre 1970) volle proprio condensare in queste due parole – comunione e missione – “le linee maestre, enunciate dal Concilio” (con l’avvertenza che “missione” non è proselitismo, ma semmai offrire una viva testimonianza, di amore e verità, agli uomini). Inoltre, già Papa San Giovanni Paolo II, chiudendo il Sinodo che fu celebrato nel 1985 (a vent’anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II), affermò la necessità che la Chiesa celebri dei Sinodi dei Vescovi i quali, però, per portare frutto – ed è questo il punto – devono essere ben preparati coinvolgendo le Chiese locali con la massima partecipazione dei fedeli.
Ecco dunque la terza parola: partecipazione. “Comunione e missione rischiano di restare termini un po’ astratti se non si coltiva una prassi ecclesiale che esprima la concretezza della sinodalità in ogni passo del cammino e dell’operare, promuovendo il reale coinvolgimento di tutti e di ciascuno… E questo non per esigenze di stile, ma di fede. La partecipazione è un’esigenza della fede battesimale. Come afferma l’Apostolo Paolo, “noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo” (1 Cor 12,13)”.
Infatti, proprio dal battesimo deriva l’uguale dignità dei figli di Dio, pur nella differenza di ministeri e carismi. A questo proposito il Papa vede tre possibili rischi: quello del “formalismo” (che vorrebbe ridurre il Sinodo a un evento straordinario piuttosto che a un percorso, e a una piena collaborazione tra sacerdoti e laici, per meglio contribuire all’opera di Dio nella nostra storia); “intellettualismo” (che ridurrebbe il Sinodo a un astratto gruppo di studio lontano dai reali problemi della Chiesa e dai mali del mondo); e infine quello della tentazione dell’”immobilismo” (con la rassegnata convinzione del “si è sempre fatto così”, v. Esortazione Apost. “Evangelii gaudium”, n. 33), con la conseguenza di adottare soluzioni vecchie per problemi nuovi, vale a dire: “un rattoppo di stoffa grezza, che alla fine crea uno strappo peggiore, Matteo 9,16).
“Per questo è importante che il Sinodo sia veramente tale, un processo in divenire; coinvolga, in fasi diverse e a partire dal basso, le Chiese locali, in un lavoro appassionato e incarnato, che imprima uno stile di comunione e partecipazione improntato alla missione”. Ecco dunque l’opportunità – come richiamato sempre da Papa Francesco all’inizio del cammino sinodale – di vivere non episodicamente, ma strutturalmente una Chiesa sinodale: cioè un luogo aperto, dove tutti si possano sentire a casa e possano partecipare; diventando una Chiesa dell’ascolto e della preghiera per capire i segnali che provengono dalle realtà locali, e pronti ad essere così una Chiesa della vicinanza, fedele allo stile di Dio che è vicinanza, compassione e tenerezza.
Per fare questo Papa Francesco ha raccomandato due specifici atteggiamenti (non solo psicologici, umani, ma spirituali, “cioè in relazione allo Spirito Santo”, v. Flavio Peloso, Messaggi di Don Orione, n. 3, 2003), vale a dire: parlare con parresia (con franchezza, senza paura e timore umano) e ascoltare con docilità e umiltà i fratelli (sapendo che lo Spirito parla servendosi di chiunque). Pertanto, avremo così “una Chiesa che non si separa dalla vita, ma si fa carico delle fragilità e delle povertà del nostro tempo, curando le ferite e risanando i cuori affranti con il balsamo di Dio”.
Per fare questo il Sinodo deve essere un tempo abitato dallo Spirito. “Perché dello Spirito abbiamo bisogno, del respiro sempre nuovo di Dio, che libera da ogni chiusura, rianima ciò che è morto, scioglie le catene, diffonde la gioia. Lo Spirito Santo è Colui che ci guida dove Dio vuole e non dove ci porterebbero le nostre idee e i nostri gusti personali”. Dunque, “non una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire” e nessuna “fortezza della fede da difendere”, e “nessuna agenda di riforme da imporre”. Mi piace poi ricordare le parole dell’Arcivescovo di Milano Mario Delpini (in una intervista di Gianni Borsa del 7 novembre 2024, per l’Agenzia SIR).
La Chiesa è missione. La missione è per il mondo. Il mondo è cambiato. La missione e perciò la Chiesa devono cambiare… La secolarizzazione si può leggere come la cronaca di una sconfitta e di un declino. La sapienza evangelica riconosce il compiersi delle parole di Gesù che indica la presenza del Regno con le immagini del pizzico di sale, della piccola luce. La domanda quindi non è quanti siamo, ma se il sale conservi il suo sapore e se continui ad ardere il fuoco... Non è la stagione dei frutti. Certo, immagino, lo Spirito renderà la Chiesa bella come la fidanzata dell’Agnello. L’attrattiva è il dono che invochiamo. Immagino cioè che ci sono e ci saranno i santi. Lo Spirito sta preparando i santi del cambiamento d’epoca… Corrono, corrono, gli uomini e le donne del nostro tempo. Ma dove vanno? E noi dovremmo inseguirli per essere “al passo con i tempi”? La profezia è piuttosto una contestazione, una parola coraggiosa e forse antipatica. Noi non abbiamo altro da dire se non che Gesù è risorto, è vivo, ci rende partecipi della sua vita.
Pertanto, la sinodalità non è fine a sé stessa, ma mira alla missione che Cristo ha affidato alla sua Chiesa nello Spirito. Nel documento finale si legge: “Valorizzando tutti i carismi e i ministeri, la sinodalità consente al Popolo di Dio di annunciare e testimoniare il Vangelo alle donne e agli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, facendosi “sacramento visibile” (“Lumen gentium”, n. 9) della fraternità e dell’unità in Cristo voluta da Dio. Sinodalità e missione sono intimamente congiunte: la missione illumina la sinodalità e la sinodalità spinge alla missione” (n. 32).
Per concludere queste mie rapide considerazioni – riassuntive di alcune fondamentali riflessioni emerse dal percorso sinodale – voglio brevemente soffermarmi sul temporaneo rinvio della decisione sul diaconato alle donne. Una recente indagine del Censis – premesso che mentre il 71,1% della popolazione si dichiara cattolica, soltanto il 15,4% si dice praticante – ha evidenziato che 4 italiani su 10 non si riconoscono nella Chiesa cattolica e che il 43,6% degli italiani (ed il 46,5% delle donne) ritiene la Chiesa cattolica italiana una istituzione maschilista, percentuale che tra i praticanti scende al 23,9%.
Io ritengo che la completa valorizzazione delle donne non possa a lungo essere rinviata, e questo per due essenziali ragioni (prima ancora di esaminare nel dettaglio le questioni storico-teologiche). Primo, il ruolo di Maria, la Santissima Madre di Cristo e nostra - che è al vertice della devozione popolare come sicuro ponte di collegamento a Dio, e come “primo soccorso” di grazia per tutte le nostre fragilità - ci testimonia il fondamentale ruolo femminile, nella stessa storia della Salvezza, e la sua funzione di servizio diaconale (interessante, ad esempio, la sua pronta decisione di recarsi dalla anziana cugina Elisabetta per assisterla nella avanzata gravidanza, facendo un lungo viaggio di circa 150 chilometri).
Secondo; proprio perché dobbiamo fare arrivare il Vangelo ai nostri contemporanei, e dato che esiste ancora il problema di una completa maturazione del ruolo della donna nella società, la Chiesa – per essere credibile non soltanto sul piano etico ma anche per offrire un valido contributo di pensiero – non può prescindere dalla valorizzazione della donna nella realtà ecclesiale per una efficace e convincente azione a favore di quella urgente costruzione della “civiltà dell’amore” così necessaria e vitale, affinché tutti – uomini e donne – possano vivere in pienezza la loro dignità (umana e trascendente), costruendo una società in cui la giustizia sia integrata e sublimata dalla carità (Lett. Apost. “Octogesima adveniens”, 1971, n. 23).