In un mondo in cui i musicisti campano di musica, una marea di borse con stampata sopra la celebre copertina di un album contribuirebbe alle vendite di quel disco, facendo pubblicità e aumentando il fatturato dell’artista. Probabilmente in quel mondo non scoppierebbe il putiferio di cui sto per parlare.
La storia, in breve, è questa: la banana disegnata da Andy Warhol, e messa sulla copertina del primo Lp dei Velvet Underground, è stata impressa su una serie di custodie per iPad messe in vendita recentemente. Senza chiedere il permesso, né a quanto pare versare i diritti, ai superstiti del gruppo, Lou Reed, John Cale e Moe Tucker, che hanno fatto causa alla Warhol Foundation, rea di aver ceduto quell’immagine, in mezzo a molte altre, alla Apple.
Non saprei dire se quel frutto debba essere considerato semplicemente un’opera tra le tante di Warhol, e quindi nella disponibilità della fondazione, o sia invece indissolubilmente legato al prodotto-disco di cui era stato l’icona. La disquisizione, che sta al centro della causa, è intrigante, ma qui ci interessiamo della musica, e in questo caso di come l’evoluzione del mercato possa influenzare anche vicende del genere.
Torniamo all’inizio: oggi non siamo in un mondo i cui i musicisti campano (solo) di musica. E comunque non della vendita dei dischi, che solo una parte esigua di noi si ostina ad affastellare ai piedi delle librerie già piene. Forse anche nel caso della banana di Warhol, alla fine l’album dei Velvet registrerà un’impennata nei dati di vendita. Ma sarà roba da poco, perché la vera crescita eventualmente avverrà nei download illegali, quelli con cui la maggior parte delle persone under 30 oggi si procura la musica, anche dopo la chiusura di Megaupload.
Nel mondo di cui parliamo, l’unico che abbiamo a disposizione, le cosiddette rockstar campano soprattutto grazie a due fattori: le tournée e il merchandising, ai quali semmai si può aggiungere l’utilizzo dei brani nella pubblicità.
I concerti sono diventati un introito fondamentale grazie agli esorbitanti prezzi che i biglietti hanno raggiunto da una decina d’anni. Cifre che dovrebbero sembrare inaudite ai reduci dell’era Flower Power, ma che diventano accettabili se hai tre piscine e devi pagare il ragazzo che toglie le foglie e pulisce il filtro due volte alla settimana. Non si tratta più, com’è noto, di andare in tour per fare promozione al disco, ma di pubblicare un disco per poter organizzare il tour.
Nel mare magnum del merchandising musicale, invece, galleggiano soprattutto orrende t-shirt che costano come un cappottino da mezza stagione e che starebbero strette a Kate Moss dopo un mese di dieta. Provate a guardare le bancarelle all’entrata dei concerti: le magliette sono un vilipendio del design, sia quelle ufficiali che quelle contraffatte (distinzione che interessa ai collezionisti, le persone sane le dividono in “belle” e “brutte”). Eppure quei pezzi di cotone uzbeko cuciti alla meglio fanno parte di un catalogo di importanza vitale nel bilancio dell’azienda R & R S.p.a..
Torniamo alla banana, ai Velvet e a Andy. Se nel rock esistesse un solo marchio riconoscibile, apprezzato, resistente nel tempo e quindi di enorme valore anche pecuniario, questo sarebbe probabilmente la banana di “The Velvet Underground & Nico”. Avrebbe contendenti agguerriti, tipo il prisma di “The Dark Side of the Moon”, ma finirebbe ai vertici della classifica.
Insomma, se gente come Lou Reed e John Cale affila gli artigli è perché non si tratta di pochi spiccioli. Chissà: forse sono troppo disincantato: magari semplicemente non vogliono che quell’immagine finisca su un porta computer perché in quel modo un’opera d’arte (il disco) sarebbe svilita, trasformandosi in un marchio decontestualizzato. Tom Waits litigherebbe per questo, in effetti. Lou Reed forse, ma ne dubito molto, rammentando lo spot dell’Enel con Sunday Morning in sottofondo.
Pensatela come vi pare, la mia riflessione senza sentenze è: questa gente, i miei eroi, sta disperatamente cercando un modo per salvare il suo tenore di vita. Diventeranno sempre più manager, mentre forse, se andrà bene, la buona musica si potrà ascoltare grazie a ragazzi che caricano clip autoprodotte su youtube e al passaparola del web.
Inoltre si può sorridere del fatto che, curiosamente, per la seconda volta (in precedenza era stato Beatles vs Steve Jobs) un frutto - mela o banana che sia - è al centro di queste diatribe. Gli avvocati degli Electric Prunes stanno già preparando gli incartamenti: strada sbarrata per i produttori di lassativi.
“The Velvet Undergound & Nico” è una pietra miliare nella storia del rock. Molti lo considerano il disco fondamentale, il più importante, il più bello. Non saprei, non direi: mette insieme idee geniali e ingenuità, pura magia e approssimazione, energia e abbandono. E’ un lavoro imperfetto, ed è questo che lo rende portentoso. L’entrata affidata alla delicatezza di “Sunday Morning”, con Lou disposto a farsi trapiantare l’ugola piuttosto che farla cantare a Nico, l’apice della psichedelia americana raggiunto con “Venus in Furs”, la leggendaria e straziata “Heroin”, l’anticipatrice “I’m Waiting for my man”, una sorta di pre-punk, l’eterea “All Tomorrow’s Party”. Sono tutti pezzi indimenticabili, eterni.
Questo disco naturalmente lo avete a casa, non pretendo la versione originale in vinile con la banana gialla sbucciabile che scopre quella rosa, ma almeno il cd dentro la fredda custodia trasparente. Altrimenti ordino al vostro hard disk di formattarsi a basso livello in questo preciso istante.