È una questione di cultura, nella mia cultura questo non è ritenuto appropriato, apparteniamo a due culture diverse...

Quante volte abbiamo sentito frasi simili o quante volte le abbiamo pronunciate noi stessi. È un dato di fatto che gli esseri umani si siano evoluti in tempi, modi e ambienti diversi in tutto il globo. Alcuni antropologi ritengono che le condizioni climatiche siano state tra le cause del diverso sviluppo delle società umane, come sostiene, tra gli altri, Jared Diamond nel suo libro Armi, acciaio e malattie.

Qualunque sia stata la ragione del proliferare delle diverse culture il dato inconfutabile è che non tutti gli esseri umani condividono gli stessi valori. E parlo di valori non di principi perché questi ultimi, come sottolinea spesso il mio caro amico Danilo Casertano, sono elementi immutabili, mentre i valori cambiano. Fino a pochi decenni fa, per esempio, per una ragazza arrivare al matrimonio illibata era un valore che oggi ha perso di senso. Quindi le culture esprimono valori diversi che, a volte, entrano in contrasto con quelli di un’altra cultura: per i musulmani il chador è un valore, per i cristiani è un’aberrazione; per i cinesi mangiare qualunque cosa che si muove è normale, per noi occidentali no.

Fin qui tutto semplice: nel mondo si sono sviluppate civiltà differenti che riconoscono l’esistenza di culture con altri valori, che a volte vengono apprezzati, altre un po' meno, per usare un eufemismo.

Ma cosa accade quando i “valori altri” sono presenti nella stessa cultura, nello stesso gruppo sociale? Sono stato educato al rispetto verso gli anziani, a dar loro del “lei”, a salutarli per primo e così via. Da qualche anno sento ragazzi e ragazze dare del tu a chiunque, anche a persone mai viste prima, porsi sullo stesso piano degli anziani e, a volte, trattarli senza alcun rispetto. Chi ha la mia età probabilmente dirà che non si tratta di culture diverse, ma di maleducazione e, istintivamente, mi sento di concordare con loro. Questo sarebbe vero se si trattasse della trasformazione di un aspetto di un valore. Ma quando queste differenze permeano tutto il quotidiano, forse bisognerebbe parlare di un cambio culturale o, quantomeno, di un cambio di mentalità.

Naturalmente il fatto che le nuove generazioni si relazionano con un perfetto estraneo di una certa età con la stessa modalità con cui si correlano con un loro coetaneo e amico di lunga data, non implica di certo un cambio radicale della nostra cultura. Se però a questo si associano altre trasformazioni, variazioni e cambi di mentalità, il sommarsi di queste singole alterazioni possono produrre mutamenti anche importanti del modo in cui la società percepisce se stessa e il mondo nel suo complesso.

Pensiamo, per esempio, a come questa nostra società sta diventando sempre più individualista ed egocentrica. Negli anni successivi al boom economico questa mutazione era evidente soprattutto nelle città, dove la vita iniziava a svolgersi in modo più frenetico e la competitività nel mondo del lavoro obbligava le persone a pensare solo a se stesse: mors tua vita mea. In quegli anni diversi artisti puntarono il dito contro questo fenomeno che stava interessando il nostro Paese e, soprattutto, stravolgeva i nostri valori. Per citare giusto quelli più noti ricordo Giorgio Gaber con “Com’è bella la città” e Adriano Celentano con “Il ragazzo della via Gluck”, tanto per rimanere in Italia, ma lo stesso grido d’allarme si fece sentire in tutto il mondo occidentale.

Si poneva, quindi, una dicotomia tra città e campagna, tra mondo rurale e il mondo degli uffici, sostenendo che nel primo si ritrovavano ancora i “valori di una volta”, il senso di cooperazione e di aiuto reciproco che stavano svanendo nel mondo cittadino/industriale.

Oggi nemmeno nelle zone rurali si ritrova più questo spirito di assistenza reciproca, anzi il sentirsi sempre più ai margini di una vita fatta di connessioni internet, mancanza di servizi e abbandono e decadimento delle politiche agricole non fa altro che alimentare un disagio sociale che sfocia spesso in comportamenti schizofrenico-depressivi.

Alcuni sostengono che l’invenzione dello smartphone sia da paragonare a quella della ruota e alla scoperta del fuoco, in quanto ha cambiato le basi stesse della società. Dalla sua introduzione e diffusione verso la fine degli anni ’90 a oggi questo - che dovrebbe essere uno strumento e che, al contrario sta diventando l’utilizzatore di strumenti, che siamo noi - si è imposto con una tale rapidità che a stento riusciamo a ricordare com’era la nostra vita senza di esso.

Questa arrendevolezza verso la tecnologia fa sì che molti non si rendano conto della vita che gli passa a fianco, mentre tengono lo sguardo incollato al cellulare. Ricordo che diversi anni fa, credo almeno una ventina, una mia amica australiana venne a trovarmi con i suoi figli adolescenti. Questi pretesero dalla madre di andarsene da casa mia perché internet non era abbastanza veloce! La mia amica mi disse che quando erano a casa passavano il loro tempo a chattare con i loro amici, che erano i vicini di casa, piuttosto che uscire e vederli di persona. Questo oggi accade anche da noi.

Il rapporto con gli anziani, la devozione verso le nuove tecnologie, l’individualismo rampante sono solo alcuni esempi di un cambio di valori che è avvenuto all’interno della nostra stessa cultura. Ma abbiamo precedentemente visto come la cultura sia definita dai valori che l’alimentano: se questo è vero ne consegue che quello che stiamo vivendo è un cambio culturale.

E allora non dovremmo avere lo stesso atteggiamento che dimostriamo quando incontriamo culture diverse dalla nostra? Non dovremmo, cioè, osservare questa nuova cultura senza giudicarla, anzi rispettandola? Ma forse accogliere una cultura lontana, modi di vivere e valori diversi dai nostri ci risulta più semplice - anche se non sempre facile – piuttosto che accettare una trasformazione all’interno della nostra.

Se in tutto l’Oriente ruttare al tavolo è sintomo di aver gradito il pasto magari non mi fa molto piacere, ma lo posso comprendere. Accettare che quasi tutti evitino di rapportarsi con i propri simili preferendo all’incontro fisico uno scambio virtuale a distanza, quando fino a qualche decennio fa addirittura il telefono veniva sentito come uno strumento che allontanava le persone, piuttosto che avvicinarle, potrebbe essere molto più difficile; sia perché è una trasformazione che avviene all’interno della nostra società, luogo ideologico e fisico in cui ci troviamo a vivere, sia perché noi stessi siamo permeati da quella cultura che ci è stata tramandata dai nostri avi e che, a ragione o a torto, riteniamo “giusta”, nostra e che mira a una coesistenza di cooperazione attiva e non virtuale.

Sostanzialmente questo pensiero potrebbe essere riassunto nella frase “gli altri facciano un po' quello che vogliono, da noi si fa così!”

Ma ci dobbiamo rendere conto che “quello che gli altri vogliono” lo vogliono qui da noi, non in Paesi lontani. Il cambio culturale è già avvenuto e noi dobbiamo prenderne atto. La nostra non è più la società dei nostri avi, i valori imperanti oggi non sono gli stessi di quarant’anni fa e quindi è assolutamente inutile, se non deleterio per la nostra salute mentale, continuare a ragionare con i vecchi parametri.

Non sto dicendo che oggi è meglio di ieri e quindi dobbiamo essere grati di questo cambio culturale, ma che noi stessi siamo stati gli artefici di questa mutazione, stravolgimento e, di conseguenza, non sono le nuove generazioni le responsabili di quanto sta accadendo.

A differenza degli anni ’60 e ’70 dove i giovani di tutto il mondo erano i fautori del movimento culturale che prospettava un radicale mutamento di valori nella società (la rivoluzione), i ragazzi di oggi sono le vittime di una trasformazione che è in atto da diversi decenni alla quale abbiamo dato il nostro contributo, attivo o passivo che fosse.

Noi abbiamo combinato questo sconquasso culturale e non ci dobbiamo aspettare che siano le nuove generazioni a metterlo a posto.