Infilata la porta di casa
saltò nella strada e si dette a scappare.

Ci sono due segni che ricorrono più volte nel capolavoro collodiano come a segnare dei passaggi decisivi nella vita metamorfica dell’essere pinocchiesco quale essere ibrido, instabile e in mutazione continua: la strada e il mare con la sua spiaggia.

Già all’inizio del racconto il tema-segno della strada emerge con forza allusiva e penetrante. Appena plasmato dal demiurgo Geppetto Pinocchio fugge, scappa. Uno slancio incontenibile lo scuote. Uno slancio vitale, caotico, traboccante. Non fugge contro Geppetto né conosce alcun nomos o idea di mondo. Sfugge per natura, per istinto. Non possiede ancora le orecchie ma conosce un fiuto che lo getta nell’oltre, nell’altrove. La lingua collodiana appare sempre acuta e sapiente nella sua finezza: “saltò nella strada” come se la strada fosse un altro mondo, un mondo a parte in cui immergersi. Un mondo-apeiron, senza chiare direzioni né dimensioni. Pinocchio sembra amare questa natura ambigua e indeterminata della strada quale dimensione della fuga, dello sparire, dell’occultarsi.

Ma la strada è anche il territorio del pericolo, dell’equivoco, della cattura di chi ha la colpa di non avere un fine, di “vagabondare” cioè di muoversi liberamente. Pinocchio vi incontra subito il rischio della cattura da parte del carabiniere oltre che incontrarci l’ottusità di una folla ignota e opaca che non comprende mai nulla. Qui Geppetto si sacrifica per la prima volta andando in carcere al posto di Pinocchio. Non a caso per ritornare a casa prende la più sicura “via dei campi” nei quali si muove con la naturalezza di un cane, di un segugio, di un leprotto: natura in mezzo alla natura, quasi invisibile ad una società che sa di morte e oppressione. Il suo saltare le siepi ha l’aura di una gioia naturale irresistibile, contagiosa. Dopotutto lo spirito nomade che confesserà al Grillo corrisponde all’istinto artistico e girovago proprio di Geppetto e in virtù del quale si rivolse a Mastro Ciliegia per chiedergli un legno da lavorare. Pinocchio quindi fuggendo sta compiendo la natura-vocazione profonda sia propria che di Geppetto.

Quando il burattino sfida il violento temporale e vi avventura di notte in un paesino lì vicino che “sembra il paese dei morti” (e lo è simbolicamente, spiritualmente) per giungere a questo suo primo fare esperienza della morte quasi si salta il tema della strada: “in un centinaio di salti arrivò fino al paese”. A Pinocchio si addice il salto, come ad un coribante, ad un cureto danzante. Il paesino ha strade vuote, come la casa di Mastro Ciliegia e di Geppetto. È il vuoto della coscienza pinocchiesca, il vuoto di un mondo che sa di morte.

Quando va verso la scuola in mezzo alla neve con i suoi vestiti vegetali nuovi Pinocchio imbocca in realtà la strada dell’immaginazione, del parlare con se stesso e parlando inventa nuovi mondi fino a seguire invece la strada della musica lungo una via traversa e lunghissima che giunge al mare.

La via della deviazione? Apparentemente. La via obliqua di Apollo-Dioniso. Ritorna infatti ad un luogo non definito: un paesino lungo il mare con il grande Teatro dei Burattini. Un luogo artificiale, precario, effimero che sembra stare in piedi in virtù del sogno, dalla capacità di sognare. Un luogo teatrale nella misura (non misurabile) in cui il teatro è un magico non-luogo, vuoto sciamanico, varco esistenziale e iniziatico. Pinocchio segue il tamburo e i flauti acuti di Dioniso fino al mare, altro luogo originario del kaos. Appena uscito miracolosamente indenne (e arricchito) dalla prova sacrificale del Teatro Pinocchio incontra nella strada la Volpe che gli parla di Geppetto e lo chiama per nome. Come resistergli? Ancora una volta una strada-Geppetto, apparentemente paterna e in realtà trappola insidiosa, mera apparenza. La strada misura anche il ritmo dell’allontanamento-ricerca proprio del vagabondare pinocchiesco. La via verso la cupa e lugubre Osteria del Gambero Rosso (altro Teatro platonico del mondo anti-umano) non a caso viene descritta come lunga e mortifera: cammina, cammina, cammina vi giungono sul far della sera e stanchi morti.

Un altro viaggio dentro la morte, scandita anche dalla mezzanotte quale ora della ripartenza, contro ogni consuetudine. Pinocchio cammina ancora una volta verso il Campo dei miracoli senza più una strada, a tentoni. Ma avrebbe trovato la Fata se non fosse stato inseguito dagli Assassini? Non solo ora manca l’amata strada ma il buio è fittissimo, rafforzato narrativamente dai sacchi sporchi di carbone con cui si mascherano il Gatto e la Volpe, dagli uccellacci notturni che gli sbattono sul naso (attraversando la quasi invisibile strada) e dall’eco del suo parlare con se stesso che richiama ancora una volta sia Geppetto che Mastro Ciliegia. Una strada catabatica che diviene “più buia di prima” allo spegnersi del fantasma del Grillo parlante. Un bosco di ombre che in realtà non è molto dissimile dal Teatro dei burattini dove anche lì rischiò la vita.

L’incontro con la Fata gli fa conoscere che nel bosco esiste una via (che più tardi conosceremo come “via maestra”) che non a caso è la via dove presto incontrerà Geppetto, parola di Fata-Sirena, mentitrice rituale, seriale. Un bosco strano dove ci si perde ma tutto quello che si perde si ritrova. Il termine “via” indica un valore superiore alla generica e comune “strada” ma alla strada Pinocchio ritorna per raggiungere il mitico Campo dei miracoli: un solitario pezzo di terra vicino alla città di Acchiappacitrulli nel paese dei *Barbagianni, cioè dei predatori notturni. Un altro non-luogo lontano da raggiungere: ci mettono più di mezza giornata per fare quella distanza che la Volpe aveva indicato come appena due chilometri! Uscito di prigione eccolo ancora per strada e sempre correndo e parlando-fantasticando con se stesso. Ma ora compare uno strano Serpente che gli blocca il passaggio. È la strada il serpente, come in certi antichi giochi dell’Oca? Se il mondo è un mondo anti-umano o un anti-mondo per oltrepassarlo occorre ribaltare la prospettiva, lo sguardo e infatti il nostro eroe vince il Serpente (senza combattere) proprio finendo nel fango a testa in giù! Ma non solo la strada, anche i campi appaiono pericolosi in questo mondo pinocchiesco infido e fluido e appena entra nei campi a prendere due acini d’uva eccolo vedere le stelle preso alla tagliola.

Ripresa la corsa forsennata dopo l’esperienza sciamanica della cuccia di Melampo eccolo raggiungere la “strada maestra” del bosco della Fata. Una strada paradossale, solitaria, nascosta, alta e da cui si vede il luogo dove abita la Fata, ora trasformato in una semplice tomba di marmo. Se l’eroe di legno trova spesso l’inganno, l’equivoco e la morte lungo la strada è anche vero che attrettante volte fa a meno della strada come quando cavalca il Colombo, come Ganimede con l’aquila di Zeus, per giungere (ormai è facile prevederlo) al mare e alla sua spiaggia. Se presso la prima spiaggia c’era Mangiafuoco (alter ego di Geppetto, un Geppetto imbruttito) ora c’è proprio Geppetto che sta per naufragare nella tempesta dei flutti dove lo seguirà l’eroico burattino. Un altro diluvio dopo quello del paesino di notte e che lo catapulta su un’altra spiaggia mattutina, questa volta solitaria: quella delle Api Industriose.

Geppetto naufraga nella bocca nel Pescecane, sua nuova abitazione; Pinocchio naufraga nell’Isola della Fata. Isola strana in quanto sarà anche l’Isola del Pescatore verde e del Paese dei balocchi. Isola circondata proprio dal Pesce cane mostruoso. Ancora una volta la strada diventa luogo di incontro-scontro e di trasformazione con l’incontro con la Fata nella sua versione di nuova Madre-Maestra. Mentre cammina con i compagni di scuola ecco l’ennesima feconda deviazione: il richiamo del mare e dell’immagine paterna.

Pinocchio segue sempre il fantasma di Geppetto e l’inganno sociale funziona su di lui perché manipola sempre la sua immagine e la mancanza che ne prova il nostro eroe. Ma anche Geppetto cerca Pinocchio. Non possono quindi trovarsi perché entrambi si spostano, si cercano e questo nel duplice senso di cercarsi reciprocamente e di cercare sè stessi. Ecco nuovamente la spiaggia quale non-luogo rituale, rivelativo, epifanico in questo passaggio delle virtù di Pinocchio: coraggio, combattimento e la compassione altruistica per gli altri nel salvataggio del cane Alidoro.

Il mare con la sua aura di libertà e indeterminatezza naturale e caotica sembra esercitare un potere attrattivo su Pinocchio che vi ritorna fuggendo dall’arresto e nella scena del Pescatore verde. Nella via del ritorno verso la casa della Fata dopo quella intensa e drammatica giornata Pinocchio viene rivestito dal vecchino della capanna con un sacco di lupini e imbocca di nuovo la strada. Sembra come all’inizio: vestiti nuovi e strada. Qui però è tormentato dal pensiero-vergogna che lo travaglia. Una strada-coscienza sempre in dinamica mutazione. Quando cerca l’amato Lucignolo per invitarlo alla sua festa dell’indomani, quella dell’imminente trasformazione in Uomo, non lo trova e “fa la strada invano” ma ogni strada pinocchiesca è da una parte vana dal punto di vista pratico-funzionale e dall’altra fertile e trasformativa dal punto di vista interiore, esistenziale.

Lucignolo parte a mezzanotte (come dall’Osteria del gambero rosso) e và: lontano, lontano lontano verso un altro non-luogo-apeiron che richiama magneticamente Pinocchio nel suo senso di libertà pre-sociale e aionica. Lucignolo è il dàimon serotino della soglia che dilata lo spaziotempo risucchiandoci dentro Pinocchio con la malia della sua stessa potente immaginazione: che bel paese! Io me lo figuro…Collodi è maestro dei paradossi più sapienti: il carro cupo dell’Omino di burro (il finto Dioniso) galoppa di notte sui ciottoli della via maestra, la stessa che portava da Geppetto e dalla Fata (nel bosco). Una strada solo notturna e lunga, come quella che portava al Teatro marino di Mangiafoco e il kairòs epifanico avviene panicamente sempre al mattino. Pinocchio vive sempre vicino al mare.

Quando da asino si azzoppa al Circo-Teatro e viene venduto al mercato ecco che il suo compratore lo porta subito al mare per gettarlo nelle acque da uno scoglio, legato. Altra forma sacrificale di trasformazione pinocchiesca. Quando la Fata gli appare quale capretta turchina sopra uno scoglio bianco in mezzo al mare è il momento in cui Fata e Geppetto-pesce sono vicinissimi. La ternarietà della Pietra filosofale sembra vicina alla sua restituita unità. L’ultima alba di mutazione appare sulla spiaggia in cui il Tonno deposita i due naufraghi liberati: Geppetto-Anchise e Pinocchio-Enea. Ora la via è sicura, e infatti i due la percorrono piano piano, riposandosi ogni tanto. Si possono contare i passi (per la prima volta): dopo cento passi incontrano per l’ultima volta il Gatto e la Volpe, immiseriti. Ora la strada è veritativa, certa, chiarificante. Appare per la prima volta un’armonia fra sociale e naturale nei proverbi popolari con cui Pinocchio scaccia le mascherine dell’inganno e della miseria. Torna anche la viottola (come quella all’arrivo all’Isola e nella lingua-viottola del Pescecane) ma ora è fra i campi in un senso di armonia e autenticità e infatti li conduce ad una nuova casa fatata con un Grillo redivivo. Il mondo appare ora a misura di Pinocchio: la casa di Giangio è distante tre campi. Non ci sono più strade e Pinocchio torna a correre allegro. La città non può fargli più male.