Termino il romanzo capolavoro della geniale poetessa e scrittrice Sylvia Plath, La campana di vetro, sua unica opera in prosa e testamento, non solo letterario. Di stringente autobiografia (benché pubblicato con lo pseudonimo di Victoria Lucas) in cui nulla viene taciuto, compreso il suo ricovero in una clinica psichiatrica in seguito a un tentativo di suicidio. Lei lì a causa del martirio della sindrome maniaco-depressiva, oggi comunemente nota come bipolarismo e da cui si lasciò sopraffare ‒ come molti ‒ in una triste mattina del 1963.

Nell’oscillare tra i due poli estremi dell’umore, si traghettano oceani di sensazioni e di emozioni e troppo spesso le onde sono così alte e violente da non riuscire a scansarle e a dominarle. È la disperazione più assoluta che investe il bipolare nei momenti di crisi, e che trova la sua definizione più eccellente nelle parole di Victor Hugo: la “fine del mondo” fatta solo ed esclusivamente per l’uomo. La disperazione accomuna tutti i pazienti della clinica psichiatrica e la sofferenza raccontata è enorme. La sua una tra le tante, non unica, ma una copia di una serie di altre copie.

La sua bipolarità era manifesta anche nel suo modo di scrivere: soprattutto nelle poesie, l’alternarsi continuo e repentino di dolcezza e crudezza. E poi c’erano i libri per bambini, la spensieratezza più assoluta, l’espressione del suo animo e carattere fondamentalmente allegri.

Bella come una mannequin, incantò ‒ non solo per intelletto ‒ il grande poeta inglese Ted Hughes che con lei mostrò ben poco o niente di poetico: tradimenti e aggressioni, non solo verbali. A volte capita che grandi artisti dalla penna fatata o dalla tavolozza magica, non siano affatto sensibili come le loro opere vogliono mostrare, entrando così in contradditorio con la loro produzione artistica e dimostrando che questa non è affatto una manifestazione o prosecuzione di sé stessi.

Mi chiedo, non solo nello specifico di Ted Hughes, quanto e quando l’Arte abbia di realmente autentico in certi casi o si risolva spesso in mero tecnicismo ed esercizio di bravura. Di sicuro però, per Sylvia, quello fu un amore totalizzante da cui nacquero anche due figli (una femmina e un maschio, destinato alla stessa infelice sorte della madre). Un amore malato, tossico, che non fece che aggravare il suo fragile e precario stato di salute. Ma non è giusto ricondurre a puro manicheismo quest’importante relazione. Anche Sylvia aveva una lingua tagliente, una spigolosità che nessuno riusciva a smussare.

Vivere con un bipolare non è certamente semplice, addentrarsi nella sofferenza profonda da cui scaturiscono atteggiamenti (apparentemente) bizzarri è pressoché impossibile. Quella sofferenza nasce dalle gole, dalle grotte di un animo che urla per il fatto di sentirsi incompreso e inascoltato, ma in realtà non riesce a comprendere e ad ascoltare neanche sé stesso, offuscato com’è dal dolore.

E più va alla ricerca spasmodica della comprensione e dell’ascolto, più si allontana dagli altri per senso di inadeguatezza. Il sentirsi non capiti è una costante di questa ed altre simili malattie e Sylvia esprime in modo chiarissimo questo disagio in una delle sue frasi più famose: “sono sempre stata e mi son sempre sentita come un libro aperto, circondato da analfabeti”.

È curioso come Sylvia Plath, assieme a Robert Lowell ed Anne Sexton, siano stati i più grandi esponenti della Poesia Confessionale e tutti bipolari. Sylvia, forse più degli altri, è riuscita a raccontare la malattia, a mettere il lettore al cospetto di quest’insidiosa patologia e a prenderlo quasi per mano nei meandri delle sue vicissitudini.

Vicissitudini raccontate con parole sincere, dure, forti e dolci al contempo; tutte parole di chi è orfano di serenità anche nei momenti allegri perché, in fondo, lei si sente sempre inutile, sgradita e, come già detto, incompresa a causa di una malattia onnipresente e che fa sentire troppo, nel bene e nel male. E che rende talvolta incredibilmente empatici, in comunione col mondo e altre volte freddi, glaciali, insensibili anche all’amore e alle premure delle persone più care; portandoli ad essere incapaci spesso di affrontare la “normalità”. Sylvia si descrive e descrive tutto questo ne La campana di vetro e nei Diari, senza fare sconti a nessuno. In primis a sé stessa.

Diventando un vero “culto” per le sue opere, per la fine da lei stessa scelta è assurta anche a simbolo di una lacerante sofferenza e di tutte le vite interrotte a causa della malattia mentale.