Partiamo da Qualcuno volò sul nido del cuculo, chi non se lo ricorda. Patrick Mc Murphy, alias Jack Nicholson, si vede defraudato di un’imperdibile finale di baseball in programma sulla tv.

A decidere tale divieto è la capo infermiera Mildred Ratched, una gelida e rassicurante espressione del potere, parola ambigua, ma ci siamo capiti. È lei che gestisce la mente instabile dei “picchiatelli” ospiti di un Istituto psichiatrico dove si ruminano giornate senza gioia, sempre uguali. Per tutta risposta, Mc Murphy decide di creare le azioni della partita con la sua immaginazione e di farne addirittura la telecronaca in diretta davanti agli occhi sovraeccitati dei pazienti.

La tv spenta certifica la potenza del suo ingegno, la capacità, in questo caso rivoluzionaria, di produrre a piacimento le proprie immagini dal nulla. Questa sua intraprendenza, unita ad un profondo istinto per la libertà, gli verranno definitivamente amputati con una lobotomia al cervello. E qui c’è già tutto quello che si può dire sulla strategia ultima del potere, come sopra.

Un paragone della stessa genialità, con esiti meno tragici, anzi, esilaranti, avviene in L’audace colpo dei Soliti Ignoti. La grande tradizione della commedia italiana.

Vittorio Gassman, in piedi davanti al commissario che interroga i sospetti della rapina a un furgone del totocalcio pieno di grana, improvvisa una immaginifica, travolgente azione di contropiede del mitico centrattacco romanista Piedone Manfredini per avvalorare il proprio alibi.

È una partita che non ha visto, dal momento che era impegnato a fare il colpo con i suoi complici, ma la rivive con furore agonistico dopo averla mandata a memoria dall’articolo di un giornale sportivo. Insomma, lui, quella domenica, allo stadio c’era eccome, caro commissario, e quello, sfinito dal delirante show di fede giallorossa, deve farsene una ragione.

Cosa c’entra tutto ciò con la parola latina Imago che, secondo un’azzardata esegesi, che qui prendo in prestito, sarebbe declinabile così: in me ago, ovvero una forza che “agisce dentro di me”? Forse non è così interessante sapere se l’etimo è esatto, di sicuro ha un certo fascino e non è nemmeno escluso che colga perfettamente nel segno. Basta rifletterci.

Esiste per la nostra mente una forza più penetrante dell’immagine? No, decisamente no, non serve un certificato per confermarlo. Basta così, è tutto quello che ci interessa.

Se stiamo a questa premessa, il panorama si amplifica e possiamo osservare le conseguenze del moltiplicarsi delle immagini nella nostra vita quotidiana. Non è azzardato dire che ne siamo letteralmente “posseduti”. Il paradosso è che abbiamo tra le mani lo strumento per farle scaturire senza soluzione di continuità, come se ci avessero dotato della bacchetta magica o della lampada di Aladino. Non è miracoloso!? Siamo o no figli del progresso?

Perché, allora, si vocifera che l’iniezione continua di immagini nel nostro cervello prosciuga sensibilmente e implacabilmente la nostra immaginazione, quella semplice, genuina dote di fantasia di quando eravamo piccoli e dovevamo inventarci dei giochi per placare la noia, riempire il vuoto, sopperire alla carenza di mezzi per il divertimento. Più d’uno dirà: ci risiamo, ecco la solita tirata su come si stava meglio quando si stava peggio.

Vallo a chiedere a un ragazzin* che ci è cresciuto con la bacchetta magica in tasca. Quell* ti guarda e non sa nemmeno di che cosa stai parlando: da quale pianeta vieni, amico? Rassegnati, non attacca, fattene una ragione. Per lui/lei/* (ma la vogliamo piantare con l’ebrezza della codificazione a tutti i costi?), non ha senso neanche il calcolo delle immagini, non si preoccupa di distinguere tra quelle volontarie, cercate consapevolmente, e quelle involontarie che si aprono come fiori di gramigna appena clicchi su qualcosa: pubblicità, sconcezze assortite, avvisi, aggiornamenti, che ognuno s’industria a evitare come se percorresse il labirinto di un videogioco.

Quell* ci è cresciut* nel labirinto del pop up, ci sta che è una pacchia, è la sua giungla quotidiana e conosce in gran parte quei percorsi, ci si addentra che è un piacere, non si chiede nemmeno se si è inseguitori di qualcosa, o inseguiti da qualcosa d’innominabile, senza codici né asterischi. Un “ente” che percorre le traiettorie impazzite degli umani e le restituisce in presa diretta.

Perfino nella serialità e nel cinema, i lavori capaci di attingere ad un’immaginazione che non è il copia e incolla di strutture narrative marcescenti si contano sulla punta delle dita. Topos immagazzinati e condivisi, mentalmente abitati a suffragio universale, abusati e ripetitivi: un luogo disadorno e degradato per inscenare l’ultimo duello tra i superstiti di una storia d’inseguimenti. Se l’originalità ha perso i suoi ultimi eroi nella tormenta di un anonimo, inqualificabile acceleratore di immagini, come dobbiamo interpretare il fenomeno, e soprattutto cosa ci resta da fare? Staccare il telefono e dire, “vi saluto!?”.

Cosa direbbe Giorgio Gaber, oggi, di quella sua importante riflessione/conclusione sull’esistenza umana, “la libertà è partecipazione”. Sarebbe ancora fiero di condividerla, di farne parte, o ne sarebbe nauseato? Partecipazione al gioco al massacro dei cervelli? All’abuso sistematico dei neuroni, in larga parte male utilizzati per i difetti congeniti dell’esistere, eppure ancora ostinati e presumibilmente svegli, sebbene al lumicino della pazienza e della passione?

E Pasolini, un poeta dotato di una penetrante, unica, originale visione del mondo, che in tempi non sospetti già condannava la televisione per il suo subdolo potere di omologare il pensiero, cosa scriverebbe in un suo nuovo scritto corsaro? Ricorrerebbe a un’ultima dose di humour, che non era nemmeno la sua dote più immediata, basta pensare al suo ultimo film, Salò, per squalificare quello che abbiamo sotto gli occhi?

Forse l’intelligenza artificiale è davvero la nostra ultima risorsa, la sacerdotessa (e qui, secondo me, il femminile esalta la nozione di deità) di un suicidio collettivo della coscienza, l’estremo sussulto di un’abdicazione inevitabile, Che si prenda pure il banco, dia le carte e faccia il suo gioco. Noi, con discrezione e in silenzio, avremo già abbandonato il tavolo.