La fondazione di Parma “romana” risale all’epoca repubblicana e, più precisamente, al 183 a. C., data in cui la città fu dedotta come colonia di diritto romano ad opera dei triumviri Marco Emilio Lepido, Tito Ebuzio Parro e Lucio Quinto Crispino, come viene ricordato dallo storico Tito Livio (cfr. Ab Urbe condita Libri, XXXIX, 55) che parla dell’insediamento di duemila cittadini romani destinato ad occupare e consolidare una zona che per Roma rivestiva una grande rilevanza militare e strategica in seguito alla recente conquista del territorio appartenuto ai Galli Boi, in funzione della progressiva formazione della Provincia Cisalpina.

Il nome della città di Parma potrebbe essere riconducibile, secondo alcuni studi, ad un’origine etnica preromana (etrusca, ligure o celtica) oppure, secondo altra tesi, alla voce “parma” che indicava per i Celti una piccola altura e, per analogia, uno scudo rotondo e di piccole dimensioni, termine invalso con il significato di “scudo” anche nella lingua latina; a quest’ultima interpretazione si potrebbe poi abbinare l’affascinante ipotesi che i Romani avessero utilizzato il nome dello scudo per simboleggiare l’importante funzione di presidio e di baluardo svolta dalla città di Parma quale colonia particolarmente affidabile.

Un’ulteriore argomentazione sul nome della colonia romana potrebbe essere ricollegata altresì all’omonimo torrente che attraversa la città di Parma: la presenza del corso d’acqua, affluente del fiume Po, ha sempre rivestito senza dubbio una grande importanza fin dai tempi più antichi, come risulta attestato anche dai materiali rinvenuti dagli scavi archeologici di Piazza Ghiaia, effettuati in area limitrofa al lungo Parma negli anni 2010 – 2012 in occasione della realizzazione di un grande parcheggio sotterraneo. In particolare, nel sito di quella che probabilmente era in antico un’isoletta (poi scomparsa) ubicata in corrispondenza del guado principale del torrente Parma, dove in seguito fu edificato un ponte in muratura (sito dell’attuale Ponte di Mezzo), è stata rinvenuta una ricchissima stipe votiva, un deposito di circa tremilacinquecento oggetti metallici relativi probabilmente alle offerte che venivano tributate alla divinità fluviale, costituite prevalentemente da monete, circa tremila, databili tra il III secolo a. C. (periodo della Res publica romana) ed il II secolo d. C. (Alto Impero romano).

L’attraversamento del torrente Parma, originariamente effettuato tramite un guado, a partire dall’epoca romana avveniva tramite un ponte che consentiva il collegamento della colonia al suo suburbio, ubicato nell’attuale zona dell’Oltretorrente, significativamente definita “di là dall’acqua”: il cosiddetto Ponte Romano, anche noto come Pons Lapidis (ponte di pietra) o Ponte di Teodorico, che oggi possiamo ammirare (anche se solo parzialmente) nel sottopassaggio di Strada Mazzini, accanto a Piazza Ghiaia. È di epoca tardo-antica e deriva dall’originario ponte costruito lungo la via Emilia, verosimilmente nel 187 a. C., utilizzando strutture in legno con fondazioni in pietra; in età augustea, il ponte probabilmente fu realizzato in muratura e, successivamente, avendo subìto una serie di danni a causa di diverse inondazioni, fu ricostruito interamente in pietra da Teodorico (re degli Ostrogoti) nel 493 d. C., mantenendo soltanto le fondazioni delle 11 arcate originarie, che misuravano complessivamente circa 140 metri.

Negli anni 60 del secolo scorso, durante i lavori di ampliamento di Strada Mazzini, che ripercorre il tratto urbano della via Emilia (realizzata nel 187 a. C. su iniziativa del Console Marco Emilio Lepido), è stato infatti ritrovato un ponte di pietra di 11 arcate, due delle quali sono state conservate a vista ed “ingabbiate” nel sottopasso dell’odierno Ponte di Mezzo, in zona adiacente a Piazza Ghiaia. Quest’ultima prende il nome proprio dalla ghiaia alluvionale dell’alveo del torrente Parma, il cui corso fu modificato in epoca medievale da una disastrosa alluvione, un’eccezionale piena datata al 1177 o 1180, che spostò il corso d’acqua nell’alveo attuale, lasciando il vecchio letto “ghiaioso” libero e disponibile per altri usi, fino a divenire sede della principale area-mercato di Parma.

Gli spostamenti del percorso fluviale dovevano essere frequenti anche in epoca romana, come risulta attestato dalle difese spondali più antiche rinvenute durante gli scavi archeologici di Piazza Ghiaia, costituite da una serie di pali di legno infissi verticalmente nel terreno ad una profondità di circa 8 metri dal piano della piazza, strutture riconducibili all’epoca repubblicana per la presenza di un asse monetario databile al 211 a. C. circa, alle quali si aggiungono ulteriori palizzate lignee di epoca imperiale localizzate ad una quota più alta (circa 6 metri) in altre zone del cantiere. La Parma, come viene abitualmente definito il torrente con declinazione al femminile (quasi ad evocare una dea fluviale), è sempre stata molto mobile o voladora, come si usa dire in gergo dialettale per indicare il fiume in piena “che vola”.

Tra i ritrovamenti più interessanti dell’area di scavo archeologico, il già citato ripostiglio votivo evidenzia la probabile esistenza ‒ già in epoca repubblicana ‒ di un luogo sacro al centro del torrente, forse un tempio-santuario legato al culto delle acque, collocato su un’isoletta ‒ in corrispondenza di un antico guado anteriore al primo ponte ‒, poi cancellata dagli eventi alluvionali. Sito di deposito di ex voto in omaggio ad una divinità fluviale: per gli antichi, infatti, il transito sulle acque correnti (così come, a maggior ragione, la costruzione di ponti) costituiva un atto empio, in quanto andava a violare un ordine precostituito, voluto dalla divinità, e pertanto doveva essere propiziato con cerimonie particolari, sacrifici, consacrazioni ed offerte di “risarcimento” per l’attraversamento, cosicché per lungo tempo furono depositati nel punto di passaggio monete e svariati oggetti metallici (monili, pesi, piastre e placchette iscritte, statuette votive, etc.) quale dono/tributo alla divinità fluviale al fine di garantirsi la buona sorte.

L’offerta votiva di moneta, corrispondente ad una tradizione italica ben attestata ‒ correlata alla funzione di raccordo che gli antichi attribuivano alle acque, considerate quale intermediario tra il mondo terreno ed il mondo delle divinità “ctònie” (sotterranee) ‒ fu praticata nel sito per diversi secoli, dal III a. C. al II d. C., ed ha consentito così l’accumulo di un consistente deposito monetale, senza dubbio uno dei più ampi tra quelli rinvenuti in Emilia-Romagna.

La moneta più antica risulta emessa in bronzo presso la Zecca di Cartagine tra la prima e la seconda guerra punica, e risulta databile agli anni 241 - 221 a. C.; le monete più recenti risalgono alla fine del II secolo d. C., quando verosimilmente si verificò la chiusura del deposito, forse in seguito ad un evento improvviso (probabile alluvione), ed infatti una delle monete imperiali più tarde è un’emissione bronzea di Commodo del 183 d. C..

Il deposito monetale è composto in massima parte da monete di bronzo/rame (lega di rame/stagno o rame puro), con prevalenza di emissioni del periodo repubblicano, soprattutto assi (circa millecinquecento esemplari), tra i quali il più antico risale al 211 a. C. e riporta le raffigurazioni caratteristiche del tipo monetario, e cioè al dritto (D/) la testa di Giano bifronte ed al rovescio (R/) la prua di nave, il segno di valore I (1 asse) su entrambe le facce, la legenda ROMA in esergo al verso (iscrizione sulla parte inferiore del R/). Spesso gli assi, essendo monete di notevoli dimensioni in termini di peso e diametro, venivano deposti frazionati, cioè volontariamente spezzati in mezzi, terzi e quarti.

Fanno parte dell’ampio ripostiglio monetale non soltanto monete romane di epoca repubblicana ed imperiale, ma anche monete di Zecche puniche ed iberiche (Cartagine, Ibiza, Tarragona), di Alessandria di Egitto, greche (Atene, Anfipoli, Tessalonica), dell’Illiria (Durazzo, Apollonia), dell’Asia Minore (Efeso, Apamea), celtiche e galliche (Marsiglia): le monete provenienti da ogni parte del Mediterraneo testimoniano un rilevante flusso commerciale presso la colonia romana tra l’età repubblicana e quella imperiale, lasciando così ipotizzare un transito molto vivace di merci e di persone, quali mercanti, viandanti e pellegrini che hanno lasciato un segno tangibile della loro visita a Parma.

Nell’area espositiva allestita intorno al Ponte Romano, caratterizzata da una serie di vetrine che custodiscono una parte degli oggetti rivenienti dagli scavi archeologici, si può ammirare una curiosità molto interessante sotto l’aspetto numismatico: alcuni blocchi di pietra, cementati con sassi, ciottoli ed altri materiali del torrente, contengono monete che sono rimaste “incastonate” insieme ad altri oggetti metallici deposti nel corso d’acqua per l’offerta votiva e, pertanto, sono state esposte nello stato in cui sono state ritrovate nel sito originario di deposito. Sono visibili, in particolare, incastrati nel conglomerato roccioso, il rovescio (R/) di una moneta con l’iscrizione laterale CERES ed il rovescio (R/) di un’altra moneta con la raffigurazione della Vittoria, entrambe databili con buona probabilità all’epoca imperiale ed interpretabili in via ipotetica, non essendo visionabile il dritto (D/, riportante verosimilmente l’immagine di un Imperatore).

La prima moneta, che potrebbe essere un dupondio (doppio asse) dell’età di Claudio (41 – 54 d. C.), riporta al rovescio la dea Ceres seduta (con legenda CERES inequivocabile), tipo monetale che appare frequentemente nella monetazione del I e II secolo d. C. per rappresentare la personificazione di Cerere, la dea dell’agricoltura, divinità latina della vegetazione e delle messi (identificata con la dea greca Demetra), il cui culto era associato a quello della Terra Madre. Il dupondio era una moneta imperiale coniata in oricalco, lega di rame e zinco simile al moderno ottone, che conferiva un tipico colore di bronzo dorato (calco, dal greco chalkόs = bronzo), anche se poi spesso, a seconda dello stato di conservazione, la patina è risultata alterata da fenomeni di ossidazione ed usura.

La seconda moneta, che potrebbe essere un sesterzio dell’età di Traiano (98 – 117 d. C.) o di Lucio Vero (161 – 169 d. C.), riporta al rovescio la personificazione della Victoria romana, corrispondente alla Nike greca, rappresentata come una figura femminile alata che tiene uno scudo iscritto, posto su un albero di palma in segno di trofeo, tipo monetale molto diffuso per la celebrazione dei successi nelle campagne militari e, pertanto, spesso associato a Bellona, dea della guerra; il sesterzio, che in epoca repubblicana era una piccola moneta d’argento (pari ad un quarto di denario), in epoca imperiale divenne una moneta di maggiori dimensioni e fu coniato in oricalco, ma aveva un valore doppio rispetto al dupondio (che era, quindi, un mezzo sesterzio) ed equivaleva di conseguenza a quattro assi, monete che, invece, in questa fase storica venivano emesse di norma in rame, come le altre frazioni spicciole, utilizzate nelle transazioni quotidiane, i quadranti, pari ad un quarto di asse.

Volendo determinare il valore economico di un’offerta votiva di moneta conferita in valuta romana (asse/sesterzio) durante l’epoca oggetto di indagine, si può soltanto ipotizzare una stima approssimativa e generica, che risente necessariamente delle differenze di valutazione correlate al tempo ed al luogo, alla tipologia di moneta, alla lega monetaria, ai rapporti di cambio, etc..

Per avere un’idea di massima e a mero titolo esemplificativo, proviamo a prendere come parametro di riferimento il sistema dei prezzi di un’altra colonia romana, Pompei, così come risulta documentato per il I secolo d. C. da alcune fonti informative di straordinaria importanza, quali sono l’archivio del banchiere Lucio Cecilio Giocondo, specializzato nelle vendite all’asta, ed alcune iscrizioni epigrafiche rinvenute nel sito archeologico campano: apprendiamo, così, che un asse era il prezzo di una porzione di vino comune o di una porzione di formaggio, un sesterzio era il prezzo di una libbra (circa 325 grammi) di olio, la spesa alimentare quotidiana di una famiglia media di tre persone ammontava a circa 6 sesterzi, le retribuzioni (salari/stipendi) potevano oscillare da un minimo di sei assi ad un massimo di quattro sesterzi al giorno, il soldo quotidiano dei legionari era di 2,5/3 sesterzi.