Uscii di casa e mi avviai verso l’altro angolo di strada. Com’era bello il prato e il torrente che scendeva a cascatella giù per la collina!
[…]
La cascatella era in realtà una rampa di scale di legno verniciate di bianco che portavano a una casa in mezzo agli alberi.
Rimasi lì impalato per un bel po’, seguendo la scala con lo sguardo su e giù, e non riuscivo a credere ai miei occhi.
Poi battei le nocche sul mio torrentello e sentii il suono del legno.
Finii con l’essere la trota di me stesso e mi mangiai la fetta di pane.

Queste poche righe, che aprono uno dei primi racconti presenti nel romanzo, impongono fin da subito tutto il potere dell’opera sul lettore. Pesca alla trota in America è uno dei libri simbolo della controcultura americana, un condensato di spunti, riflessioni e interpretazioni della realtà statunitense fatte passare attraverso la lente dell’ironia, del surreale e, a volte, anche della malinconia.

Quella malinconia che colpisce quando meno la si aspetta, come quando, in un museo, il nostro sguardo incrocia la tela di un vedutista settecentesco. Ed è soltanto allora che, rileggendo quel passaggio così tanto criptico e al tempo stesso spontaneo, ormai ben consolidato nella nostra mente come il più orecchiabile dei ritornelli, riusciamo a trovare un senso profondo, un’epifania inaspettata nella più innocua delle narrazioni.

Come quella intitolata L’ultimo anno che le trote risalirono l’Hayman Creek. La storia sviluppa attorno alla figura di tale Charles Hayman, un pioniere che decise di stabilirsi nei pressi di un torrente che poi, di fatto, ne assunse il nome. Emerge subito la profonda condizione di isolamento e di umiltà dell’individuo, accompagnata però dall’incredibile capacità di adattamento all’ambiente e da una condizione di tuttofare, necessaria per sopravvivere con mezzi propri.

Ma non solo, perché Charles Hayman finisce per diventare – oggi più che ieri – anche una diretta espressione del sempre precario equilibrio tra Natura e Umanità. Ciò diventa evidente, in particolar modo, quando il vecchio pioniere giunge al termine della propria esistenza, con le trote che cessano di risalire il fiume:

Il mortaio e il pestello caddero dalla mensola e si ruppero.
La baracca a poco a poco marcì.
E le erbacce soffocarono i cavoli verdi.
Vent’anni dopo la morte del signor Hayman, un paio di guardiapesca vennero a ripopolare di trote i torrenti di quelle parti.
[…] E così buttarono un secchio di trotelle nel torrente, ma non appena le trote toccarono l’acqua, si voltarono a pancia in su e la corrente se le portò via belle che morte.

Come si può presto intuire, il tutto rappresenta qualcosa di ben più profondo e toccante dell’atto in sé, che pure viene descritto con una certa dose di ironia, capace di condurre inizialmente ad uno stato d’animo incerto. Un’ironia quasi crepuscolare, indefinita che, pur mettendo sul piatto gli eventi con grande schiettezza e naturalezza, nasconde nelle proprie trame anche il dolore tipico di chi vuole circoscrivere la sofferenza ad un preciso spazio mentale, senza renderla subito disponibile a tutti.

Ed è proprio per questo che leggere e rileggere l’opera diventa un’operazione incredibilmente soddisfacente, nel tentativo di cogliere i molteplici strati che Richard Brautigan ha sedimentato nelle profondità del libro. Ma non sempre ciò risulta possibile, proprio perché il romanzo va a colpire in maniera chirurgica la sensibilità dei lettori, rilasciando sensazioni uniche e diverse a seconda del vissuto personale. Non è sempre semplice intercettare il reale pensiero dell’autore, a volte sommerso sotto una superficie torbida e difficile da scandagliare; un po’ come quella di alcuni specchi d’acqua tipici della pesca.

La prima lettura diventa necessaria anzitutto per prendere confidenza con la struttura aneddotica dell’opera, che contrappone racconti brevi ad altri brevissimi, compressi in meno di due pagine. Ma ognuno dei capitoli, se attraversato nel giusto momento e con la mente sintonizzata sulle frequenze più idonee, riesce a fornire tutti quegli spunti ed interrogativi necessari per stimolare un’immersione più profonda nelle pagine, conferendo a Pesca alla trota in America una prospettiva in costante divenire, mutevole e mai scontata.

In aggiunta a ciò, il titolo del libro diventa un’entità ricorrente in gran parte dei capitoli presenti al suo interno, ma assumendo di volta in volta una consistenza diversa: può essere una persona, un albergo, un pennino e, tra i tanti, anche se stesso, decostruito come oggetto da comprare al metro, oltre che di seconda mano, al Deposito Demolizioni Cleveland.

Risulta perciò superfluo procedere in un’operazione filologica e analitica laddove, come già scritto, il trascorso personale e la sensibilità individuale diventano fattori essenziali per estrapolare anche soltanto un sentimento o un’emozione difficile da trasmettere. Volendo concludere, si potrebbe asserire che Richard Brautigan ha saputo proprio cogliere quell’interstizio invisibile, ma così ingombrante, che popola il nostro spettro emotivo, tra subconscio, reviviscenza ed una libera, nonché surrealista, divagazione dell’Io.

Un po’ come accade nell’ultimo capitolo, che riesce a soddisfare un grande desiderio dell’autore: concludere un libro con la parola maionese.