Albrecht van der Qualen si trova in uno scompartimento di prima classe dell'espresso Berlino - Roma. A un certo punto il treno entra in una stazione intermedia e lui si desta con «quel senso non molto piacevole che dà il fermarsi dopo un lungo tratto di viaggio». Benché non sappia né dove si trovi esattamente – intuisce soltanto di essere in una città tedesca – né se il sole stia per tramontare o sorgere, l'uomo decide di smontare dal convoglio e incamminarsi lungo le vie della città sconosciuta. Veniamo a sapere così, en passant, che a causa di una malattia incurabile gli rimane ormai un breve margine di vita e che per questa ragione non ha più l'abitudine di consultare il calendario e gli orologi, accontentandosi di approssimare di volta in volta l'ora, la stagione, l'anno... «Tutto ha da rimanere campato in aria…» è infatti il suo pensiero più frequente.

Depositato il bagaglio, Albrecht oltrepassa il fiume che scorre oltre la stazione, giungendo fine al limite opposto della città, dove trova infine l’annuncio di un affittacamere. Al piano indicato, il terzo, viene accolto da una vecchia signora che gli ricorda «un incubo, un personaggio di Hoffmann» e introdotto in un appartamentino senza troppe pretese. L'uomo accetta senza discussioni, e una volta solo, ispezionando l'arredamento, nota un grosso armadio in una nicchia della stanza; il mobile è vuoto, privo della parete posteriore che è stata «sostituita da una ruvida tela grigia da sacco». Dopo questo primo esame se ne cura più, ma, spinto dalla fame, esce per recarsi in un ristorante. Rientrato a tarda ora nell'alloggio, viene sorpreso, mentre sorseggia un bicchiere di cognac, da qualcosa di straniante:

L'armadio, il cui battente era spalancato, l'armadio, là, non era vuoto: c'era dentro qualcuno, una forma, un essere umano, di tale beltà che il cuore di Albrecht van der Qualen per un istante si arrestò. E riprese poi a palpitare con placidi, larghi, lenti battiti… Era completamente nuda, e teneva alzata una delle belle, esili braccia, stringendo con l'indice uno degli uncini infissi in alto. Lunghe onde di capelli bruni ricadevano sulle spalle infantili, da cui si sprigionava quell'incanto che non può suscitare altra risposta se non un singhiozzo. Negli occhi neri, oblunghi, si specchiava il riflesso delle candele. La bocca era piuttosto grande, ma di un'espressione dolce come le labbra del sonno quando, dopo giorni di pena, scendono sulla nostra fronte. Teneva le caviglie congiunte, e le gambe snelle erano strette l'una all'altra… Albrecht van der Qualen si passò la mano sugli occhi e vide… vide anche che là, nell'angolo destro, la ruvida tela grigia in fondo all'armadio era distaccata.

La donna comincia allora a raccontargli delle storie, «storie tristi, storie sconsolate, ma che si posavano sul cuore come un peso soave e lo facevano palpitare più lento e più felice». L'esperienza, dopo quella sera, si ripete ancora per un tempo imprecisato, durante il quale la ragazza si assenta talvolta per dei giorni, salvo poi ricomparire, restare silenziosa a lungo e ritrovare a poco a poco la vena narrativa. E la narrazione sfuma così, com'era cominciata, nell'indefinito: «Quanto a lungo continuò così… chi lo sa?»

L'armadio (Der Kleiderschrank) è un racconto che nel corpus del contegnoso Thomas Mann forse potrebbe apparire inessenziale, ma che invece, leggendo con attenzione, si finisce per decantare come pienamente «manniano». A cominciare dal tipico e insistito accumulo di dettagli, tale da vivificare gli ambienti e i pochi personaggi fino a trarli fuori dalla pagina e dar loro una consistenza materiale. Il naturalismo c'entra poco, si capisce, e l'oggettività che vi si mostra è soltanto di facciata; quel che balza all'occhio è piuttosto il dispiego abbondantemente calcolato di simbologie e indizi. Nulla di nuovo neanche qui, è chiaro, se non fosse che la storia non si articola nelle centinaia di pagine dello Zauberberg o del Doktor Faustus – dove alla dovizia di simboli si contrappone un dispiego di elementi che ne permette meglio la decrittazione –, ma entro uno spazio assai breve che al racconto impone un ritmo giocoforza più serrato.

Al lettore non resta che percorrere la corda tesa per lui dallo scrittore tedesco – che ovviamente è una fune piena di nodi in cui si può a ogni passo incespicare –, badando a giungere dall'altro lato senza aver avuto la pretesa di scioglierne alcunché lungo il tragitto. Impossibile dipanare la matassa. Alle prese con una così densa concentrazione di simboli si potrebbe essere tentati di tornare indietro e abbandonare il campo; d'altronde, nel finale è lo stesso autore che, implicitamente, invita chi lo legge a desistere da ogni eventuale proposito interpretativo:

Chi può anche sapere se quel pomeriggio van der Qualen si era realmente svegliato ed era sceso nella città sconosciuta, o no era invece rimasto a dormire nello scompartimento di prima classe del treno espresso Berlino - Roma che, a folle velocità, lo aveva trasportato di là dai monti? Chi di noi oserebbe dare a questa domanda una risposta precisa ed assumerne la responsabilità? È una questione molto dubbia. «Tutto ha da rimanere campato in aria…».

Davanti a tali ostacoli, sarebbe quindi più accorto rinunciare alle risposte esatte, che forse non arriveranno mai, e lasciarsi andare un po' alla benefica suggestione dei quesiti. Il protagonista è morto, e il fiume che a un certo punto scorge – e oltrepassa – è lo Stige? Oppure è ancora in vita, ma, non godendo di un'ampia aspettativa, si affida ai racconti della donna misteriosa affinché posticipare ad libitum la propria dipartita? E la ragazza, che giunge sul far della sera e si dilegua all'alba, è per questo una sorta di Shahrazād che attraverso la narrazione estende non soltanto la sua vita ma anche quella del suo ascoltatore? O quest'ultimo, diversamente da quel che appare, è solo trasfigurazione dell'artista il quale deve sottrarsi ai vincoli del tempo e rifugiarsi in uno straniamento indispensabile?

Note

Tutte le citazioni sono tratte da Thomas Mann, L'armadio, in Tutte le opere, vol. 2, a cura di Lavinia Mazzucchetti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1953.