Per questo muoiono gli uomini, perché non possono ricongiungere il principio e la fine.
(Alcmeone da Crotone, Frammento 24 B 2 DK)
Nel 2022, pubblicai l’Ep Melampo, un lavoro oscuro scritto e registrato in un paio di mesi con la volontà di fissare e dare forma alle molte informazioni sull’aldilà che casualmente mi piovevano addosso in quei giorni da film, letture e conversazioni. Il progetto prese forma e risultò essere un completamento artistico a uno studio che condussi nel 2016 per la “Rivista di Studi Italiani” dal titolo La narrativa dell’aldilà. La funzione della memoria in tre casi di rappresentazione dell’oltre. Quello che segue è il percorso utile per comprendere la genesi e il senso del lavoro e per immergersi in alcune suggestioni che scrittori e poeti hanno saputo offrire agli uomini su una tematica così complessa e affascinante.
Federico Ruysch (1638-1731) fu un medico olandese che deve molta della sua notorietà a un innovativo metodo di conservazione dei cadaveri che permetteva alle mummie trattate con i suoi artifici di mantenersi in modo assai diverso da quelle del passato: quelle antiche, infatti, innaturalmente secche palesavano senza equivoci il loro stato di morte mentre con il metodo Ruysch la mummia acquisiva un carattere di maggior freschezza. A dimostrazione del suo lavoro lo scienziato allestì addirittura un museo di tali composizioni macabre.
Un secolo dopo, nel 1824, Giacomo Leopardi prende spunto da questo personaggio per confezionare una delle sue celebri Operette morali, il Dialogo di Federico Ruysch e le sue mummie. Immagina Leopardi che una notte le mummie di Federico si risveglino dal loro sonno e inizino a cantare in coro. Il fatto soprannaturale può avvenire perché proprio in quel momento scattava il Grande Anno, un ciclo astronomico che capita ogni 40.000 anni circa e che finisce quando tutti i pianeti, il Sole e la Luna tornano a riunirsi nello stesso segno dal quale si suppone siano partiti in epoca remota.
Il mio grande interrogativo quando, liceale e studente di Conservatorio lessi per la prima volta il racconto, ricordo essere stato rivolto al tipo di melodia cantata dai morti; che è lo stesso quesito che mi posi quando venni a conoscenza che in un frammento del 1928 del Commonplace Book di Howard Phillips Lovecraft lo scrittore americano immaginava che un certo genere di musica, solenne e dai toni profondi, richiamasse alla mente visioni particolari di fine ‘800 con salotti popolati da persone defunte e negozi in rovina illuminati da lampioni ad acetilene. In pratica, come avrà suonato la musica dei morti? Quali leggi compositive avrà dovuto rispettare?
Furono questi interrogativi che mi spinsero molti anni dopo a ideare La musica dei morti, una storia musicata che ripercorresse le tappe di un incontro tra un vivo e un defunto e che mescolasse suggestioni tratte dalle esperienze letterarie più disparate sull’argomento; inizialmente pensai proprio di dare voce al coro leopardiano delle mummie – ignoro se ne esista una versione musicata da qualcuno – ma ben presto mi resi conto che la strada non poteva essere quella in quanto poco immediata la fruizione delle parole auliche del poeta con il nostro contesto linguistico attuale.
Allora partii da capo e decisi di costruire una narrazione in cui voci e punti di vista si sarebbero alternati in modo repentino ma avrebbero fatto emergere l’idea di un grande denominatore comune a tutte le culture: c’è sempre una barriera che separa i mondi ma qualcuno possiede la chiave segreta d’accesso per oltrepassarla.
Si pensi ad Arianna e Teseo: in un certo senso quel mito rappresenta proprio questo, la separazione di strutture che trovano un collegamento attraverso un filo che sta sia di qua sia di là creando un ponte. Lo stesso vale per il mito di Melampo (“l’uomo dai piedi neri”), sacerdote che aveva ricevuto il dono della comprensione del linguaggio degli uccelli e degli animali e anche le arti magiche utili per guarire le persone dalla morte. Melampo vive a metà tra i due mondi ed è custode della parola della natura, del linguaggio cifrato dell’universo.
Per questo lo scelsi come filo conduttore della musica dei morti, una storia di simbologie e rimandi alle vicende più oscure che legano il mistero dell’oltretomba con la nostra realtà. Una di queste simbologie fa riferimento alle idee che Carlo Ginzburg espresse nella sua Storia notturna (1989), in cui relaziona il simbolismo dei piedi e il regno dei morti (non per nulla un personaggio della mia storia si chiama Claudio, lo “zoppo”) citando il mito di Edipo e, cosa inaspettata, Cenerentola. Di questa nota fiaba esistono innumerevoli varianti ma Ginzburg colloca la versione europea nell’ambito delle fiabe di magia e la scarpetta perduta, il monosandalismo, rappresenterebbe il marchio della perdita impresso sul corpo dell’eroina che si è recata nel regno dei morti, evocata simbolicamente dalla reggia del principe.
C’è, dunque, sempre un momento in cui il contatto può avvenire: se per Cenerentola è il ballo prima di mezzanotte e per Leopardi l’annus magnus che apre il varco tra i due mondi, nella mia storia è l’8 di novembre. Questa festività risulta essere una delle più oscure e misteriose tradizioni del mondo romano, di probabile discendenza etrusca. Nel culto romano il mundus era una fossa dedicata agli Dei Mani, coperta da una grossa lastra che veniva spostata tre volte l’anno: il 24 agosto, il 5 ottobre e l’8 novembre. Nei giorni (dies religiosi) in cui il mundus veniva aperto (patet) il mondo dei vivi e quello dei morti erano in comunicazione, con tutte le ovvie implicazioni che questa idea poteva avere sulla realtà quotidiana e sulla psiche delle persone del tempo.
Come saranno però arrivate le comunicazioni dal mundus? La lingua dei morti è la stessa dei vivi? Se si fa fede a quanto ci raccontano le comunicazioni medianiche o le registrazioni psicofoniche che captano le voci dei defunti, il linguaggio rimane tendenzialmente lo stesso. È un concetto interessante, soprattutto considerando che i libri dei morti parlano quasi sempre la lingua del defunto e così fanno anche i defunti che compaiono nelle fiabe tradizionali. Mi viene in mente, una fra tante, la storia di Teig O’Kane e il cadavere, inserita da William Butler Yeats nella sua raccolta di fiabe irlandesi in cui i morti che vi compaiono discorrono con un vivo in gaelico.
La lingua è la stessa dei vivi anche nelle lamine d’oro orfiche (IV sec. a. C.), vere e proprie istruzioni di viaggio per l’oltretomba; contrariamente all’immaginario comune mi piace però pensare che le anime comunichino in una sorta di lingua universale, magari vocalica, come quella delle formule magiche che si possono leggere ad esempio nel Papiro W di Leida. Ecco perché il coro di morti che mi sono immaginato non canta le parole di Leopardi ma vocalizzi che provengono dal varco comunque comprensibili all’interlocutore iniziato, novello Faust assetato di conoscenza che sa di avere pochissimo tempo a disposizione per accaparrarsi i sigilli, gli strumenti magici utili per aprire le porte del mondo sotterraneo.
La voce in Melampo non fa altro che ripercorrere un itinerario, ben conosciuto ad esempio dai mystai antichi resi edotti anzitempo dalle iniziazioni orfiche: è sconcertante ritrovare nelle lamine d’oro cui ho accennato delle indicazioni puntualissime circa l’itinerario del morto appena giunto nell’oltretomba. Così recita la I A 3, il mio spunto per una parte del brano, deposta in un vaso bronzeo del IV sec. a. C. e conservata al museo di Volos in Tessaglia (traduzione a cura di Giovanni Pugliese Carratelli):
Troverai a destra delle case di Ade una fonte,
e accanto a essa eretto un bianco cipresso: a questa fonte non avvicinarti neppure. Più oltre troverai la fredda acqua che scorre Dal lago di Mnemosyne. Vi stanno innanzi custodi, ed essi ti chiederanno a qual fine sei venuto fin lì. A loro tu esponi tutta la verità; dì: “Son figlio della Terra e del Cielo stellato; Asterios è il (mio) nome. Son arso di sete: ma datemi da bere dalla fonte”.
È come se lo scrivente avesse il tragitto stampato in mente, con le sue svolte e le sue tappe obbligate: l’errore (e quindi l’errare) non è previsto. Poco c’era da ritoccare in un testo così bello e gran parte delle sue parole è entrato in Melampo.
I collanti che ho utilizzato per legare tutta questa accozzaglia di immagini sono stati la poesia e la letteratura, fonte di saccheggio illimitato degli autori di tutte le generazioni; anche il poeta parla una lingua universale, invasato dal fuoco di un dio, e in questo caso il mio ringraziamento va alle liriche di Giorgos Seferis e Robert Lowell e agli scritti di Kafka. E forse, pur non avendolo ancora letto al tempo della stesura dei miei testi, allo spirito di Novalis e ai suoi Inni alla notte.
La musica che ho composto, sgorgata in fretta e senza ripensamenti dalla cantilena delle parole, è impostata come un viaggio, e come un viaggio ha un’andata e un ritorno distinti, così come distinti sono i due brani, pur essendo il viaggio uno soltanto.
La ruota della bicicletta (di mio figlio) che si sente ticchettare all’inizio e alla fine e che gira specularmente aumentando e diminuendo la velocità significa proprio questo: la partenza e il ritorno, l’inizio e la fine. Anche se i brani sono due e sono ascoltabili in modo indipendente, fatti suonare di fila senza fade out e fade in si agganciano e procedono in modo cancrizzante perché tutte le armonie di Melampo (La musica dei morti) sono quelle de La musica dei morti (Melampo) a ritroso in un gioco palindromo che riconduce sempre l’ascoltatore al punto di partenza. Ed è "per questo [che] muoiono gli uomini, perché non possono ricongiungere il principio e la fine (Alcmeone da Crotone, Frammento 24 B 2 DK).